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Cinque maggio

Capita di avere lo stesso numero di scarpe o anche di indossare la stessa cravatta, magari di avere giorno e mese di nascita (non l’anno, per fortuna) precisi spiaccicati a quelli che ricordano la dipartita di illustrissimi personaggi (tipo Napoleone Bonaparte, per esempio, morto esattamente duecento anni fa nell’esilio di sant’Elena e del quale oggi si celebrano fasti e nefasti) che la storia l’hanno scritta meritandosi memoria imperitura. I conti col 5 maggio, col suo carico di ei fu che puntualmente lo accompagna, devo quindi farli, ahimè, anch’io. Così, mentre festeggio l’anno di nascita, qualcuno, passando, allegramente mi sussurra quell’ei fu che Alessandro Manzoni usò quale incipit della sua straordinaria ode a colui (Napoléon 1re, de toute évidence) che in meno di vent’anni sconvolse l’Europa, che vinse e perse tutto semplicemente “perché la sua forza era anche la sua debolezza”.

Di solito, all’allegro augurio rispondo che essendo ancora qui non ho nulla da spartire con quell’ei fu. Oggi vedrò il da farsi e deciderò il da dirsi. Se tutto va bene m’ingarbuglierò nella selva corposa degli anni e a ogni ei fu opporrò le ragioni dell’io sono (ancora e per fortuna) accompagnandole con opportuni scongiuri e da quel saggio adagio che dicendo “nessuno è tanto vecchio da non credere di poter felicemente campare almeno un altro giorno…” (magari tanti giorni quanti sono quelli che servono per aggiungere altra vita agli anni), consente di guardare al domani con qualche ragionevole speranza.

Intanto, per oppormi e togliermi di torno il semplicistico ei fu, ho strizzato le diciotto sestine che compongono l’ode manzoniana e le ho ridotte a una: lo stretto necessario per ribadire la domanda che nella sesta strofa interroga noi (comuni mortali: alti bassi forti ricchi poveri potenti coraggiosi o pavidi, a piacimento), chiedendo “fu vera gloria?” e aggiungendovi poi a discolpa quel “ai posteri l’ardua sentenzia…” che tutto medica e rimanda. Quanto al primattore, l’ode non ha dubbi: “Dall’Alpe alle Piramidi, dal Manzanare al Reno… tutto ei provò: la gloria maggiore dopo il periglio, la fuga e la vittoria, la reggia e il triste esilio: due volte nella polvere, due volte sull’altar”.

Certo, il Manzoni che scrisse quest’ode intitolata “cinque maggio” quando il calendario segnava il 16 luglio (aveva saputo della morte di Napoleone solo allora e subito gli punse vaghezza di scrivere versi che senza nominarlo riassumessero tutto il suo furore, la sua vanità e la sua solitudine ultima), impiegando in tutto soltanto tre giorni, non è il mio preferito. La troppa enfasi messa nel raccontare quel superbo che si fece incoronare re d’Italia e che per sfizio e diletto coniò marenghi d’oro con le scritte in italiano, contrasta con la visione di un mondo in cui non vi è posto per dittatori e imperatori e neppure rende giustizia alla misericordia divina che pure viene invocata quale rimedio alle follie consumate cercando gloria e onore, beni effimeri non virtù su cui contare per guadagnare salvezza e redenzione.

Meglio l’altro Manzoni, quello che racconta e raccontando cerca la verità, che va alla colonna infame non per appendervi accuse ma per cercare verità. Mino Martinazzoli, testimone credibile delle ragioni della politica, che in pretesti per una requisitoria manzoniana mise dubbi e ragioni, non esitò a spiegare (lo fece con un libro intitolato “la legge e la coscienza”) che se “in Mosè è la legge che garantisce la libertà, in Nicodemo i dubbi della coscienza sono il baluardo della stessa libertà”. Mino sostenne anche che “l’idea-forza che animava la storia della Colonna infame consisteva nell’intuizione di una libertà morale che non ha modo di dare risposte risolutive ma può trovare il coraggio della provocazione, della inquietudine e della discontinuità”. E Manzoni, raccontandola, di certo faceva esplodere quel conflitto tra legge, coscienza e potere che non avrebbe mai smesso d’essere attuale.

Però oggi, cinque maggio, come ogni anno, prevale l’ei fu: facile da pronunciare e ricordare; dimostrazione di un passato forse onorevole o forse no; modo per identificare colui che provò l’onta della polvere e la gloria dell’altare; ideale mezzo per caricare su Napoleone la colpa della repressione (“non c’era libertà di stampa né libertà di associazione e la bandiera libertaria – ha scritto Alessandro Barbero – era smentita dall’azione repressiva”), ma anche il valore di quel  suo codice che difendeva l’eguaglianza e la parità dei diritti civili; occasione per ribadire, spiega ancora Barbero che “il suo era un governo autoritario, poliziesco e militarista, che però non faceva differenza tra un ebreo e un protestante o tra un aristocratico e un figlio del popolo, perché tutti erano uguali davanti alla legge”.

Ei fu… Così Francesco Merlo arriva a dire che anche “l’aggettivo napoleonico è impazzito diventando, via via, napoleonesco, napoleoniano, napoleonotto, napoleonista… aggettivi psicologici che comprendono tutte, ma proprio tutte le varianti della grandiosità. Del resto Napoleone è stato pure moneta, gioco d’azzardo, una speciale intensità del colore rosso…”.

Ei fu, ma se ancora fosse sarebbe assai poco drago, esageratamente celodurista, tanto populista, scarsamente fiorentino, probabilmente forzista, di certo destrista, ma non tricolorista, forse democratico, mai però pentastellista, neppure comunista, tutt’al più avventurista, meglio ancora avanguardista. Così, a duecento anni dalla morte, lui, Napoleone, è ancora mito per tanti e piccolo uomo dotato di un ego gigantesco per altrettanti. Ei fu… Per favore, lasciatelo riposare in pace. E sarà ugualmente un bel cinque maggio.

LUCIANO COSTA

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