Scorro l’elenco di chi se ne è andato avanti per colpa del virus: tanti sconosciuti, ma anche gente conosciuta, persone viste per vie e strade intente a dare una mano, a dire che in un mondo malato e così preoccupato di quel che potrebbe accadere c’è ancora spazio per un pregio invisibile ma essenziale: la generosità. Essa nasce dalla convinzione che nessuno si salva da solo e che solo insieme è possibile uscire dalle crisi che la natura, il fato, il caso, la negligenza, il vento, la pioggia, il fiume, il fuoco e noi umani abbiamo alimentato e continuiamo, come se niente fosse accaduto, ad alimentare. La generosità non è una virtù, ma semmai l’insieme di più virtù – sensibilità, condivisione, umiltà, carità, mitezza, sobrietà, perseveranza… – riunite per dare concretezza alla città dell’uomo, quel “paese reale” in cui c’è posto per tutti, dove ciascuno possiede uguale dignità e dispone di pari opportunità.
E’ stata la generosità a spingere uomini e donne a interessarsi di altri uomini e altre donne come loro viaggiatori e ospiti di un tempo che reclamava aiuto e comprensione. E’ prendendo atto di questo sommarsi e avvicendarsi di piccoli grandi gesti di generosità che si comprende come le varie proposte finalizzate a raccogliere fondi da destinare all’aiuto dei più poveri e abbandonati, abbia avuto successo. Ogni euro un nome, un pensiero, una generosità, un gesto spesso anonimo, perciò ancor più prezioso e apprezzabile. “Il buon cuore dei bresciani non delude mai – mi ha detto un amico professore che all’insegnamento, senza dare alcun preavviso, ha preferito la cascina da accudire, i campi da arare e le vacche da mungere –; e non delude perché la lezione ricevuta da padri e nonni includeva, prima di tutto, il dovere di condividere con chiunque tendesse la mano il tanto o il poco che era disponibile. E quella era la forma perfetta della generosità”.
Così, il povero questuante che in un giorno qualsiasi di ogni settimana bussava alla porta, di cui tutti conoscevano il nome e la fatica di vivere, diventava immancabilmente destinatario di ciò che in quel momento la dispensa e la stalla offrivano. Allo stesso modo, il frate che passava alla vigilia delle feste comandate ma anche alla fine della raccolta del frumento e del granoturco, se andava con i sacchi ricolmi e qualche soldo da portare al convento. Poi venne il progresso, che tutto scombussolò tranne la buona pratica della generosità. Oggi la storia si ripete e i bresciani sono ancora lì a dimostrare che insieme si possono fare grandi cose.
Proprio ieri, ad esempio, ho saputo che un gruppo di mamme collegate tra loro dal cellulare, ha lanciato l’idea di trasformare la festa di Santa Lucia, ormai prossima, in un gioco nel quale tutti vincono se tutti accettano di aggiungere “un dono al dono”. Se o ben capito funziona così: io porto un regalo a te e tu ne porti uno a me, così che possa prendere quel regalo e regalarlo a chi, in quel giorno, di regali non ne riceverà neppure uno. Tanti anni fa, al grido di “tu dai una cosa a me e io dò una cosa a te”, un manipolo di teneroni e forse buonisti riuscì a convogliare attorno alla festa di Santa Lucia le luci della ribalta televisiva e anche un numero talmente alto di regali da distribuire da stupire anche i più scettici cultori del “non fare niente che tanto è la stessa cosa”. Non so se il prossimo 13 dicembre, festa di quella Santa Lucia che porta i doni ai bimbi buoni, saremo liberi di muoverci e di incontrarci. So per certo che nessun divieto potrà impedire di far giungere a destinazione eventuali generosità.
LUCIANO COSTA