Parlano la stessa lingua i senatori della Repubblica italiana, ma non si capiscono. Ieri, attorno al controverso disegno legge sull’omotransfobia (decreto Zan), uno diceva qualcosa e l’altro sembrava fuori dal coro; allora l’altro alzava la voce e il suo dirimpettaio sembrava privo di udito. La Presidente dell’Assemblea chiedeva dialogo, moderatezza, ascolto, capacità di fare sintesi, silenzio e rispetto se non degli oppositori e avversi all’idea sostenuta, almeno della buona reputazione dell’aula, ma era inascoltata. Così i lavori sono proceduti a singhiozzo con momenti di tensione quando questo o quello proponevano una parola in più o una in meno, una limatura del testo piuttosto che la modifica del testo, una riunione dei vertici o almeno una pausa di ripensamento… Oggi si riprende e il rischio è che si rinnovi senza correzioni il copione già visto. Poi, dicono gli esperti, si andrà alla conta, che in mancanza di un accordo preventivo tutti temono essendo chiaro che la casa traballa. Per evitare crolli irreparabili è probabile un rinvio a settembre. E chissà che da qui ad allora il dialogo auspicato tra le parti consenta al buon senso di prevalere.
Però, il dubbio è che pochi conoscano il significato della parola dialogo. In questo caso sarebbe per loro necessario leggere quel che è scritto in tutti i vocabolari-dizionari-abbecedari ed enciclopedie, o anche soltanto quel passo della “Fratelli tutti”, enciclica di lode al creato e alle creature, che dice: “Avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di contatto, tutto questo si riassume nel verbo “dialogare”. Per incontrarci e aiutarci a vicenda abbiamo bisogno di dialogare. Non c’è bisogno di dire a che serve il dialogo. Mi basta pensare che cosa sarebbe il mondo senza il dialogo paziente di tante persone generose che hanno tenuto unite famiglie e comunità. Il dialogo perseverante e coraggioso non fa notizia come gli scontri e i conflitti, eppure aiuta discretamente il mondo a vivere meglio, molto più di quanto possiamo rendercene conto”.
Per chi non crede al valore delle parole contenute nell’enciclica e neppure a quelle riferite dai libri scritti apposta per spiegarlo, ribadisco che “dialogo” è e significa, letteralmente, Parola-tra-di-noi: ed è tutto ciò che di buono e di bello e di vero accade quando questa Parola-ponte viene incontrata, presa sul serio, attraversata e condivisa. Tanti buoni maestri (ce ne sono anche se non si vedono e sono inascoltati) insegnano che “senza dialogo, senza la niente affatto facile comprensione del limite proprio e di quello dell’altro e senza la fede paziente nella Parola-tra-di-noi, le nostre parole si svuotano o, al contrario, si gonfiano ed esplodono, le anime di ammalano e per la nostra umanità non c’è gioia e non c’è salvezza e troppe volte c’è dolore e c’è vergogna”. A dirlo è stato un frate di Assisi, ma a ben pensarci, potrebbe dirlo chiunque. Soprattutto perché è un pensiero che può accomunare persone di diverse fedi e di diverse convinzioni, ma di stessa onestà. Il Papa, certo non uno qualunque, per dare valore a questo pensiero invita a “pensare come sarebbe il mondo senza il dialogo paziente di tante persone generose…”. Probabilmente sarebbe un fallimento totale. Perché questo non accada serve “il realismo di chi vede e non nasconde il peso del male e la gratitudine per chi fa la propria parte di bene con fiducia e senza lesinare energie”. Se questa diventa la prassi “il dialogo va avanti, anche in un tempo in cui i falsi profeti dell’inesorabile scontro di civiltà e dell’apartheid etnico-religioso vorrebbero che ci infilassimo tutti in nuove armature digitali (e non solo) per darci battaglia come all’ultimo respiro, senza nemmeno provare ad ascoltarci, capirci, intenderci e lavorare insieme per il bene necessario e possibile”.
Per dirlo con le parole di un cristianesimo vissuto e non solo esibito “il dialogo è uno strumento dell’amore, e quindi esiste e si realizza se sentiamo che intorno a noi c’è qualcuno e qualcosa di importante, così importante da volerci avere a che fare, da guardarlo in faccia, da starci in relazione, da fidarcene e da volerlo custodire, da ascoltarlo sul serio. Ascoltare è davvero una grande prova d’amore e d’amicizia, soprattutto oggi, nel frastuono dei troppi soliloqui di (apparente) successo. Senza ascolto, infatti, non c’è dialogo. Dialogare, così come amare, spinge invece a fare i conti con la realtà, anche se non è comodo, anche se mette a rischio le sicurezze e alla prova la buona fede, anche se costringe a tenere aperte non solo le orecchie, ma pure gli occhi. Insomma, dialogare non fa stare tranquilli”. Ma, e lo dico per i senatori impegnati ancora oggi a discutere su temi certo controversi ma non impossibili da tradurre in norme condivise, aiuta a cercare e trovare la giusta via, ikl giusto compromesso, la più equa soluzione, il più incisivo punto di partenza.
Provare, riprovare e ancora provare: in questo esercizio, forse estenuante ma utile, sta il senso del dialogo, cioè del mettere la parola-tra-di- noi.
LUCIANO COSTA