Adesso che li chiudono o li obbligano a orari che nulla hanno da spartire col senso che li sovrasta e li anima, oso dire che mi piacciono. Davvero, e benché praticamente astemio, mi piacciono i bar-caffè, mi piace la gente che li frequenta, mi piacciono le chiacchiere che vi si consumano. Mi piacciono ma, per favore, non chiedetemi di spiegare il motivo di tale predilezione. Non lo so e non so neppure per quale motivo li considero meglio di un negozio di barbiere (che in fatto di chiacchiere e pettegolezzi ha ben poco da imparare e tanto, invece, da insegnare), o di una gelateria. Forse è colpa di certe letture giovanili dalle quali trasudavano stereotipi spesso inapplicabili, o di un certo modo di intenderle.
Quelle giovanili letture – ma solo quelle, purtroppo – ci consentivano viaggi immaginari e fantastici nelle capitali della cultura europea, ognuna delle quali offriva un buon numero di “bar-caffè-ritrovi” dentro i quali schiere di pittori, scultori, poeti, romanzieri, politici, intellettuali (quasi tutti succhiaruote, perditempo, malcontenti, avanguardisti e retroguardisti) tentavano di dar vita e sostanza ad un “tempo nuovo”, così nuovo da elevarli al di sopra della massa e renderli immortali. Così i “bar-caffè-ritrovi” parigini, ad esempio, apparivano i più sofisticati ed intriganti; quelli viennesi, invece, i più filosofici; e se quelli di Berlino erano melanconici, quelli di Roma sembravano decisamente caserecci.
Ovviamente, nessun riferimento ai locali di Brescia, “la me bela città”, ad eccezione delle gustose puntatine su “trani” e “licinsì” di Angelo Canossi, massimo cantore delle gesta nostrane, mai entrato nell’empireo mitteleuropeo. Però, benché innominati, i bar nostrani avevano una peculiarità indiscussa: riunivano gente diversa con l’unico e condiviso scopo di parlare e sparlare dei capi, dei politici, delle bellone in cerca di facili puntelli, dei furbi che andavano a ruota, delle ultime notizie messe in circolazione dai soliti cronisti perditempo, dei quattro o quarantaquattro procacciatori di voti che per conto dei soliti noti disturbavano anche le formiche e, per dare lustro al fatto di essere lì, dei “pirlo” che a seconda del tempo e dell’umore del barista cambiavano consistenza, colore, aspetto e gradazione.
Bei tempi.
Adesso, benché molto ruoti ancora attorno al classico “pirlo”, il modo di andare e stare al bar è completamente diverso. Per esempio, il pirlo si chiama “spritz”, l’aperitivo “happy hour”, il cicchetto “velo rosso”, il calicino “nuvola bianca”, il flut “bollicine” e il loro valore è direttamente proporzionale alla quantità di tagli e ritagli che li accompagnano, che se consistenti trasformano la bevutella in “apericena”. Nel ripetitivo rito dominano frasi che sembrano fatte apposta per dire niente, circolano discorsi sincopati, volano pacche baci e abbracci, si consumano ossequi che se potessero esprimersi direbbero esattamente il contrario, si fanno programmi orientati al bello dello sballo, si sparano sentenze la cui sostanza è la stessa di quella annunciata dai politicanti appena un minuto prima.
Bello o brutto, sciocco o solo svagato, tutto questo è destinato a essere accantonato come acqua passata della quale non si rammenta neppure il colore. Son tornati i divieti e infuria la tempesta. Il rischio è di ritrovarsi a far la conta dei malandati piuttosto che dei sanificati. La cosiddetta seconda ondata della pandemia se non è già qui è lì fuori che aspetta un varco per infilarsi tra le pieghe del nostro quotidiano. Ieri uno dei soliti esperti ha detto che “un nuovo lockdown è possibile”. Lui e la sua teoria li avrei volentieri mandati a quel paese. Ma essendomi fatto persuaso che qualsiasi previsione è bislacca, ho rimandato l’invio alla fine della commedia. Nel frattempo… occhio al virus: circola e non fa sconti a nessuno. Però, e meno male, ha i giorni contati. Infatti, all’orizzonte si stanno allineando le truppe dei vaccini: s’annuncia una dura battaglia. Se fossi un virus abbandonerei la scena, soprattutto perché, come dice il saggio, non c’è scampo per i venditori di sventura.