“Tutti vorremmo sperimentare dentro il nostro cuore una pacata serenità, anche in questa situazione di turbolenza che non smette di intorpidire pensieri e di gettare sconforto. Vorremmo…, ma facciamo fatica, perché ci prende la paura e quando essa domina, tutta la realtà assume connotazioni fosche”. Don Giacomo Canobbio, illustre teologo e fine scrittore, ha incominciato così la sua omelia della domenica. Subito dopo ha messo accanto alle parole la necessità di cercare “pace e grazia, che nascono quando la speranza resta viva nel cuore e non ci si lascia travolgere dalle situazioni minacciose”.
Ma a chi parlava don Giacomo? Di sicuro parlava alla gente distribuita tra i banchi tra distanze abissali, ai tanti che avrebbero letto la sua omelia distribuita con certosina pazienza sul web, ma forse anche ai distratti che non sanno che farsene di omelie e prediche, ma che però si fermano a guardare il cielo sperando di vedere la luce che dissolve le tenebre.
Parlava da prete, don Giacomo. E diceva: “Se siamo venuti qui a celebrare l’Eucarestia, che vuol dire rendimento di grazie, è perché vogliamo sentire che il Signore ci accompagna anche nella valle oscura”. Ma poi, dettava subito anche una lezione di vita incentrata sulla resilienza, utile a chi era lì e a chi avrebbe letto o ascoltato dopo la sua domenicale parola. “In questi ultimi mesi – spiegava don Giacomo – è risuonata spesso nelle conversazioni la parola “resilienza”, che significa capacità di emergere da situazioni di fallimento e di estrema fatica attingendo dal proprio intimo le forze che sembravano definitivamente perdute. Questo termine – aggiungeva – è stato usato, in particolare, facendo riferimento all’esperienza che abbiamo vissuto in primavera, al tempo del lockdown, in piena pandemia da coronavirus, presi da paure difficili da controllare”. E’ allora seguita una domanda: “Ma come si fa a coltivare la resilienza?”.
Don Canobbio, senza esitazione, ha risposto: “Soltanto se si è capaci di tenere davanti agli occhi un obiettivo, una meta…”. E perché tutti intendessero ha riferito “l’esperienza vissuta nei campi di concentramento, e raccontata in un suo testo (“Uno psicologo nel lager”) da Victor Frankl, uno dei più grandi psicanalisti del secolo scorso. Egli era stato portato in un campo di concentramento e mentre era lì gli uccisero la moglie ed il figlio. Frankl, nonostante la tragedia subita, aiutava i prigionieri a mantenere piccole speranze ogni giorno. Quelli che mantennero piccole speranze, riuscirono a sopravvivere. Ecco – ammoniva allora don Giacomo – la resilienza non si costruisce immaginando che la realtà cambi improvvisamente da sola, ma piuttosto custodendo giorno dopo giorno, delle piccole speranze che infondono energia per affrontare la situazione”.
Tralascio la parte di omelia dettata per far comprendere le sacre letture della domenica (ciascuno può provvedere a leggerle e a meditarle), ma farei torto a don Giacomo se non usassi quel che l’evangelista riferisce, e cioè che davanti a Gesù ci sono “comunità stanche, che in mezzo alla situazione di persecuzione, dichiarano che non ce la fanno più”, per dire che noi siamo, purtroppo, una comunità stanca, sfiduciata, alle prese con situazioni di pesantezza che si prolungano nel tempo e non cambiano. Vorremmo qualcosa di meglio, ma siccome non accade, ci lasciamo prendere dallo sconforto…
Che fare? Don Giacomo rilegge la parabola in cui ci sono cinque ragazze sagge e cinque ragazze stolte in attesa ciascuna dello sposo e la propone come paradigma della nostra esistenza. “Quelle sagge, che hanno portato con sé l’olio – spiega -, sono quei discepoli che dentro una situazione di fatica, pur sperimentando la stanchezza continuano a rimanere fedeli all’impegno che si sono assunti; le cinque ragazze stolte, invece, che non hanno portato l’olio, sono i discepoli che si lasciano dominare dalla stanchezza, che non hanno cioè la capacità di resilienza che consiste nel continuare, anche dentro la fatica, a compiere, da cristiani la volontà di Dio, da laici a impegnarsi per fare in modo che le cose migliorino”.
Se non fosse scandaloso tradurre la Parola in parole semplicemente civili, direi che per il bene di questa umanità dolente e timorosa chiunque dovrebbe essere non solo un resiliente ma un resistente. Secondo don Giacomo “nella attuale situazione che appesantisce il nostro spirito e ci riempie di paura, abbiamo bisogno di resilienza e di resistenza che si possono coltivare sapendo che la meta della nostra vita è l’incontro con il Signore. Questo non significa alienarsi dalla storia, cioè non guardare più alla realtà concreta, ma piuttosto attingere continuamente energia per far fronte con Sapienza alla realtà nella quale ci troviamo”.
“Sapienza”, dice il prete. Ma che cosa è? “Sapienza è attenersi alle regole che preservano noi e gli altri dalla minaccia che ci avvolge da ogni parte, senza però lasciarsi spaventare… perché da cristiani sappiamo che la meta della nostra vita è l’incontro definitivo con il Signore”. Resta da decidere dove collocarsi adesso, in questo tempo ingarbugliato da egoismi e paure: tra le ragazze sagge o tra le stolte, cioè tra coloro che in forza della fatica e della stanchezza non si lasciano schiacciare, diventando resilienti e resistenti, oppure se siamo persone che si lasciano travolgere dagli eventi e abbattere?
Si potrebbe far leva sulle piccole speranze di cui parlava Victor Frankl nel campo di concentramento. “Il Vangelo – ha allora spiegato don Giacomo – ha a che fare concretamente con la nostra vita, perché ci rende capaci di sperare anche là dove sembrerebbe che la speranza debba solo morire”.
LUCIANO COSTA