Ho visto, qualche giorno fa, la regina Elisabetta d’Inghilterra accogliere sorridente nella sua regale dimora il presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden e la sua consorte. Più che capi di nobili e potenti nazioni, mi sono sembrati vecchi amici ai quali, magari per un attimo soltanto, non interessava scoprire di quale pasta fossero fatti i cannoni dispiegati in difesa e offesa di chissà quale nemici, ma quali fossero le regole auree e immutabili per fare il tè. In verità, ha scritto recentemente Giuseppe Matarazzo, “se provate a cercare la voce “tè” sul primo ricettario che vi capita tra le mani è probabile che non la troviate, o che troviate tutt’al più poche righe di vaghe istruzioni che non vi offriranno alcun suggerimento riguardo a una serie di punti fondamentali. Il che è curioso, non solo perché il tè è uno dei pilastri della civiltà britannica, come pure di Irlanda, Australia e Nuova Zelanda, ma anche perché il modo migliore di prepararlo è oggetto di un acceso dibattito”.
Il più interessante contestatore delle millenarie regole per preparare la bevanda miracolosa (buona per tutte le occasioni e anche per curare tutte le malattie del modo, secondo gli affabulatori di corte) e brontolona (troppa generosa ingestione di infuso smuove le budella e suscita brontolii almeno imbarazzanti) è stato sicuramente George Orwell, quello della Fattoria degli animali, l’inventore dei sette comandamenti (a dir poco originali) che tutti gli animali erano tenuti a rispettare. Che cosa c’entrino i sette comandamenti di Orwell con la regina e i suoi due ospiti non lo so spiegare. Però, visto che si tratta di grandi capi di stato, posso immaginarlo. Fosse qui, Orwell direbbe che le regole della fattoria, se applicate, porterebbero giovamento alle nazioni. In fondo, sapere che “tutto ciò che va su due gambe è nemico mentre tutto ciò che va su quattro gambe o ha ali è amico; che nessun animale vestirà abiti, dormirà in un letto, berrà alcolici e ucciderà un altro animale; che tutti gli animali sono uguali” rende l’idea di che cosa sarebbe un mondo perfetto, magari perfetto perché non guidato-amministrato-sorretto-comandato e sovrastato da umani. Però, che dire del seguito del racconto, almeno della parte del racconto che dicendo “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri”, mescola le carte fino al punto da ingarbugliarle e renderle illeggibili?
Nello specifico caso relativo al miglior modo di preparare una tazza di tè, Orwell propone la sua “personale ricetta”, quella che prevede undici irrinunciabili passaggi, equivalenti a undici regole auree, consapevole che se “su un paio di essi, l’accordo dovrebbe essere pressoché unanime”, altri possono risultare “altamente controversi”. A cominciare, scrive Giuseppe Matarazzo, dalla provenienza delle foglie: è preferibile non utilizzare tè cinese, poiché, a differenza di quello, dopo averlo bevuto non ci si sente più saggi, più audaci, né più ottimisti. E poi ci sono i movimenti della teiera, che sempre deve muovere verso il bollitore e mai viceversa. Per non parlare del latte, da scremare prima che sia aggiunto, e dello zucchero, assolutamente bandito perché il buon tè deve essere amaro come amara è la birra”. Teorie, una più bella dell’altra, vere e proprie visioni, ovviamente “diverse di ciò che il tè può rappresentare per una persona e una cultura”.
Se vi è sembrato azzardato l’accostamento della Regina e dei suoi illustri ospiti americani al civettuolo rito del tè, sappiate che vi sbagliate. Nessun azzardo azzardato, solo sano realismo, il necessario per capire che la tazza di tè “dà valore a un rito che appartiene alla tavola della tradizione britannica, buona per tutte le nobiltà, ma anche per gli indigenti, tali e quali ai senzatetto londinesi, per i quali quella robaccia chiamata tè era linfa di gioia”. Se è vero come è vero che la Regina d’Inghilterra ormai quasi centenaria stava mischiando i suoi nobili quarti con quelli di “sette grandi della terra”, di sicuro potenti ma certo non necessariamente nobili, allora il richiamo alle regole per fare il tè e servirlo in modo che tutti possano gustarlo al meglio, è pertinente. Vuol dire infatti che nessun grande della terra può servirsi della terra se non per renderla amica e aperta a tutti.
Capita l’antifona?
LUCIANO COSTA