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Oggi, santi e morti dicono non ti scordar di mé

Al mio paesello e negli altri dieci che mi sono più cari oggi, giorno dei Santi è obbligatorio andare per cimiteri a salutare i morti, portare loro un fiore che li rassereni e li faccia sentire non dimenticati, rinnovare la gratitudine (se almeno questo esercizio permane e si diffonde superando contrasti e incomprensioni che furono), rivedere chi siamo stati e, tra le tombe, incontrare le persone con le quali abbiamo condiviso pane, sapere, speranze, sogni e quell’immancabile utopia che faceva giurare di non lasciare che le distanze annullassero affetti e amicizie. Rivedrò, ne sono sicuro, molti degli amici le cui famiglie furono costrette dalle crisi agricole e dalle logiche che sovrintendevano i patti di affittanza agraria a lasciare il paesello amico per andare altrove. E con ciascuno rimetterò al centro brandelli di storia andata e di vita vissuta.

Chissà, adesso che s’è affievolita la buriana pandemica, rivedrò anche il vecchio Zefiro (ormai vicino ai cento, ma tutto sommato ancora capace di distinguere l’acqua dal vino), testardo nel ritenere la terra immobile e tutto il resto in movimento, però tenero e amabile al punto da indurlo a presentarsi ogni anno al Camposanto amico, quando il giorno dei santi richiamava già quello dei morti, con qualche rametto di non ti scordar di mé, il suo fiore preferito e anche, per chissà quale antica tradizione, il fiore dei santi, che poeti e sognatori hanno cantato e lodato: Giovanni Pascoli lo considerava un talismano; Fernando Bandini, in tempi più recenti, ha immaginato quel fiore tal quale a quello “tanto amato” da sua madre e scivolato improvvisamente fuori dal suo prezioso libro di preghiere (“mentre sfoglio il vecchio libretto di preghiere / che vedevo spesso tra le tue mani, / dalle pie carte è scivolata fuori / una miosotide..”, uno dei mille fiori “che nei margini erbosi delle strade aprono i loro piccolissimi occhi celesti” ha scritto il poeta emozionandosi ed emozionando), forse un semplice segnalibro, però fatto apposta per dire non ti scordar di mé…

Oggi, come un comune viandante vestito da pellegrino devoto e riconoscente, andrò a cercare nel Camposanto di paesi amici e amati il volto dei parenti e degli amici andati avanti. A ciascuno dedicherò un pensiero e quel “riposa in pace” che in vece del fiore caro ai Santi chiederà in cambio la certezza del non ti scordar di mé. Poi, lascerò che pensieri vadano altrove, fino a raggiungere le improvvisate zolle di terra che nel mondo ricoprono i morti ammazzati dalla guerra e dalle guerre. E a ciascuno di quei morti, idealmente, dedicherò lo stesso fiore che qui celebra i Santi, quel miosotide piccolo e lieve, ma pronto a offrire a chiunque l’azzurro che colora i suoi petali come segno dell’infinito cielo che a tutti assicura pace…

E mentre mi rifiuto di dedicare righe e parole a quel che sta accadendo qui e altrove, ecco che tra fogli sparsi resi dimentichi dallo scorrere inesorabile del tempo e delle mode spunta la poesia accantonata, senza titolo apparente, che dice: “Un murmure, un rombo… / Son solo: ho la testa / confusa di tetri / pensieri. Mi desta / quel murmure ai vetri. / Che brontoli, o bombo? / che nuove mi porti? / E cadono l’ore / giù giù, con un lento / gocciare. Nel cuore / lontane risento / parole di morti… / Che brontoli, o bombo? / che avviene nel mondo? / Silenzio infinito. / Ma insiste profondo, / solingo smarrito, / quel lugubre rombo”.

Quella poesia l’ha scritta Giovanni Pascoli quando anche a ridosso delle sue amate colline s’udivano i rumori della guerra e forte risuonavano “parole di morti” invocanti pace. Pace per loro, ma adesso anche per i rimasti a contemplare un cielo imbronciato… Imbronciato e triste, eppure destinato, semmai si volesse, a ritornare sereno e gioioso.

LUCIANO COSTA

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