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Oggi sorrisi invece di crisi

Per un giorno, un giorno soltanto, dimentichiamo le questioni politiche legate alla crisi – Draghi procede nel suo tentativo e fino a questo momento ha raccolto tanti sì e un solo no – e diamo spazio a una piccola innovazione che farà sorridere qualcuno ma che tanti apprezzeranno. E’ questione che non riguarda il mondo nel suo insieme, solo una parte, quella popolata dai cristiani e dagli uomini e donne che credono in un Dio per il quale il “bene” sta sopra ogni altra cosa. Se volete, potete sorridere e compatire chi ancora immagina che sarà proprio il “bene” a vincere la sfida. Oppure, sorridete semplicemente perché sorridere fa bene alla salute e rende migliore tutto ciò che ci circonda. Sorridere significa guardarsi negli occhi l’un l’altro, senza paura, con la sola pretesa di assicurare a chi incrocia lo sguardo che è parte di un tutto che ci sta a cuore. Poi, domani, torneremo alle questioni ingarbugliate della politica e della cronaca. Per oggi è proprio il caso di guardarsi per dire “pace a te”, chiunque tu sia. (l. c.)

Guardarsi per dire “pace a te”

Ben vengano le novità proposte dalla Chiesa Cattolica, soprattutto se aiutano a comprendere meglio il senso dei segni inseriti nella celebrazione e il valore delle parole contenute nelle preghiere. E’ di qualche mese fa l’introduzione della nuova forma del “Padre Nostro”, la preghiera per eccellenza, nella parte in cui introduce il “non abbandonarci alla tentazione” in sostituzione del vecchio “non ci indurre in tentazione”; è della scorsa settimana, invece, la definizione del nuovo modo di affrontare lo scambio della pace, gesto tradizionalmente anticipatore del momento della comunione eucaristica. Infatti, “scambiatevi il dono della pace” è la formula che nel nuovo Messale ha sostituito la vecchia espressione “scambiatevi un segno di pace”, bellissima espressione di comunione fraterna che da quando è scoppiata l’emergenza Covid, in molte parrocchie non si dice più. Per ridurre al minimo i contatti si preferisce soprassedere, evitare ogni contatto, magari limitarsi a recitare insieme, i celebranti e i fedeli, la preghiera che anticipa il momento della comunione.

Inutile dire che non potersi sfiorare, non esprimere anche con un piccolo segno concreto la volontà di creare comunione, è un impoverimento. Per questo già adesso molte sacerdoti durante la Messa invitano a guardarsi negli occhi, a sorridersi, pur se da dietro la mascherina. Ed è proprio questa la scelta che la Conferenza Episcopale Italiana approva e sostiene.

Il Comunicato finale dell’ultimo Consiglio permanente sottolinea infatti che i vescovi italiani hanno deciso, a partire da domenica 14 febbraio «di ripristinare un gesto con il quale ci si scambia il dono della pace, invocato da Dio durante la celebrazione eucaristica». E visto che non sembra opportuno sostituire la stretta di mano o l’abbraccio con il toccarsi con i gomiti «può essere sufficiente e più significativo guardarsi negli occhi e augurarsi il dono della pace, accompagnandolo con un semplice inchino del capo».

Quindi all’invito «scambiatevi il dono della pace», ai fedeli verrà chiesto «di volgere gli occhi per intercettare quelli del vicino e accennare un inchino» per accogliere e scambiare il dono della pace, fondamento di ogni fraternità. Là dove necessario, dicono i vescovi, si potrà ribadire chenon è possibile darsi la mano e che il guardarsi e prendere contatto visivo con il proprio vicino, accompagnandolo con l’augurio “la pace sia con te”, può essere un modo sobrio ed efficace per recuperare un gesto rituale.

Un gesto, quello di scambiarsi un segno di pace durante le celebrazioni, antichissimo. Ne parla già san Giuseppe di Nablus all’inizio del II secolo e san Cirillo di Gerusalemme, siamo al IV secolo, lo pone subito prima del dialogo del prefazio. Si tratta di un gesto importante che, come spiegano i liturgisti, è «esplicitazione del senso della comunione cristiana», rimarcando l’importanza del dono, la pace appunto, che viene dal Signore. Bisogna però fare attenzione a non esagerare con l’entusiasmo, a non eccedere nell’espressione dell’affetto.

O. Av.

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