Non hanno molte occasioni di essere al centro della festa e per loro il banchetto è un pasto normale, qualche volta speciale se comprende l’aggiunta di un biscotto fatto da loro medesime. Sono suore – sorelle, madri, reverende, professe o come si chiamano in giro per il mondo -, sono cristiane, parte di un cattolicesimo in disuso ma ancora vivo, hanno scelto il convento e la loro si chiama vita consacrata, consacrata al Dio che le ha chiamate (“la vocazione religiosa è una chiamata che non ammette tentennamenti: chiede un sì netto e definitivo, il resto viene di conseguenza”, questo dice l’antica e nuova regola) e spesa ogni giorno al servizio di chi quel Dio ha indicato di amare come se stessi, quel prossimo vicino o lontano che ha la fisonomia del divino.
Sono suore di preghiera e di servizio, “e donne così – disse un giorno il capo dei comunisti ai suoi che testardamente volevano allontanare le suore dalle corsie degli ospedali perché la loro presenza ostacolava la piena occupazione – se non ci fossero bisognerebbe inventarle”. Sono suore, ma sono donne e come tali hanno in cuore la sensibilità dell’accudire, nelle mani la soavità delle carezze che asciugano le lacrime, nelle braccia la forza di sollevare e aiutare chi soffre, nelle gambe la corsa che le fa arrivare prima di ogni altro laddove c’è un povero che chiede dignità e parità, negli occhi la visione di ciò che è necessario per tradurre in pratica ciò che le evangeliche beatitudini insegnano e consigliano di attuare se il fine è quello di raggiungere la felicità, che per loro, a differenza di noi comuni mortali che la cerchiamo tra le cose da possedere e mostrare, sarà eterna una volta conclusa la dimora terrena e raggiunta quella del paradiso… Sono suore, ma sebbene per molti siano fuori dal mondo, per loro il mondo è qualcosa da abitare, da condividere, da amare, da on orare con opere, preghiere, gesti e premure che esaltino la sua bellezza e lodino Colui che l’ha creato. Sono suore e se le incontrate, per favore, non fate scongiuri, non girate l’angolo, non cambiate marciapiede: meritano rispetto e checché ne dica e professino i custodi delle più becere superstizioni non portano iella-sfortuna-calamità. State buoni, siatene certi, convincetevi: cercano il bene di tutti, sanno fare il bene meglio di qualunque altro, sono fatte apposta per trasformare carità e solidarietà in aiuti concreti, per comprendere chi non sa esprimersi, per medicare chi soffre, per portare felicità e sorrisi con cui condire l’umana avventura.
Sono suore e non hanno molte occasioni di essere festeggiate. Però oggi, 2 febbraio (giorno popolarmente detto della Candelora, con tanto di seguito che stabilisce come “dall’inverno siamo fora”), che per i cristiani è dedicato alla Presentazione di Gesù al tempio e alla Purificazione della Vergine Maria, ovunque vi sia traccia di suore, si fa festa, magari solo di luce, di comunione e di orazione ma comunque festa solenne, festa della Vita Consacrata. Se qualcuno cerca emozioni, queste emozioni oggi le trovano servite da centinaia di suore, religiose di ogni tipo, colore e congregazione, riunite portando ciascuna una fiaccola accesa, segno della luce che sono incaricate di portare nel mondo. E’ la loro festa, ma è anche la festa di tutta la Chiesa, che non smette di dire “abbiamo bisogno di voi e della vostra testimonianza”, perché voi più di qualunque altra persona “siete motivo di consolazione, di speranza; siete luce che illumina il mondo, capaci di donare la vita con serenità e gioia”.
Fine del peana, se quel che ho detto vi è sembrato tale. Però, laicamente e civilmente, non ho dubbi sul dovere di dire alle suore, chiunque esse siano, “grazie per quel che avete fatto, per quel che fate e per quel che farete”. E se qualcuno non capisce la vostra missione di servizio e di fraternità sminuzzata per tutti e a tutti assicurata, pazienza. Non voi, ma loro sono in errore. Quindi, se è permesso un augurio, eccolo: “Non smettete mai di essere suore, ne ha bisogno questa società che pur credendosi onnipotente ha ancora bisogno di tutto, anche delle briciole operose che voi recate”.
LUCIANO COSTA