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Ricordi e fiabe per il dopo Natale

“I giovani non sanno quello che i vecchi hanno già dimenticato”: onorevole frase a cui è facile ricorrere quando il panorama offerto allo scorrere quotidiano delle vicende umane induce ad avventurarsi in amarissime riflessioni. Ieri, con città e paesi (quasi) desertificati dalla pandemia, il giorno è stato invaso dalle accorate parole di un papa “fuori dall’ordinario” (cioè capace di dire al mondo che solo pensando a tutte le persone che lo abitano – tutte, ma proprio tutte, ovunque esse siano e abitino – può immaginare di avere futuro), da gesti di generosità davvero straordinari (schiere di giovani volontari impegnati a dar da mangiare e ad abbracciare disperati di ogni provenienza), da colossali manifestazioni di stupidità collettiva (le risse di ragazzotti che hanno sfiorato la tragedia erano stupide al di là di qualsiasi dubbio), da baci e abbracci resi possibili da un velo trasparente, da bombe, sparatorie, violenze e soprusi… Anche, per fortuna e grazia, da gesti di amore e di condivisione.

Ciascuno scelga dove continuare il suo Natale, magari stando alla larga da troppa melensa televisione, tanto a corto di idee da rimpinzare i suoi spazi attingendo sempre e soltanto ai soliti noti venditori di tutto, anche di fumo e vanità, di parole vuote e di ricordi al massimo degni di stare in soffitta. In fuga da simili quisquiglie ha trovato il ricordo che Gisella Adornato ha dedicato al 25 dicembre 1960, quando in piazza del Duomo a Milano, intorno al grande albero addobbato, andò in scena la manifestazione nazionale del Natale in piazza, con migliaia di metalmeccanici (secondo i sindacati centomila) in sciopero da mesi, convenuti con le loro famiglie per una manifestazione organizzata dalla Cgil, con l’adesione della sola Uil perché la Cisl ha deciso di non partecipare per non urtare la sensibilità dei cattolici.

In quella Milano, mentre in piazza parlano i sindacalisti, nella cattedrale, l’arcivescovo Giovanni Battista Montini (bresciano di nascita, destinato di lì a poco a diventare papa con il nome di Paolo VI), celebra il pontificale di Natale e usa l’omelia per dire cose che nessuno o pochi avrebbero mai pensato di sentir dire ina chieda affollata. Dice l’arcivescovo: «Noi siamo soliti a considerare il Natale come una festa piena di soavità e di pace. E così è […]. Ma il Natale, con la sua stessa luce, svela a me una scena di tenebre, profonde e immense quanto il mondo. […] Così che il Natale ci fa pensare al dolore umano». Montini si esprime toto corde: «Sofferenza a causa dell’ingiustizia, dell’egoismo, della cattiveria, dell’ipocrisia, della corruzione, dell’oppressione, che rendono miserabile e triste la vita di chi è colpevole di questi delitti e infelice e grama quella di chi ne soffre le conseguenze… Sofferenza per la povertà, per l’insufficienza del pane, della casa, del lavoro, della sicurezza sociale, per la stridente sperequazione economica di cui ancora folle di umile gente patiscono. […] Non possiamo oggi essere insensibili alle pene di tanti uomini… non possiamo godere il Natale con l’anima in pace senza pensare a loro. […] Non si tratta di una semplice eccitazione sentimentale, ma piuttosto di urgenza di carità […]». Poi, la novità assoluta, la sorpresa, quella che nessuno dei presenti si aspetta, e soprattutto nessuna delle migliaia di persone che, fuori dalle magnifiche porte bronzee della cattedrale, manifestano al freddo: «Oggi stesso – dice l’arcivescovo -, questa stessa celebrazione ci sollecita a osservare se per caso vicino a noi fossero fratelli in disagio, fratelli che soffrono. Sì, vi sono vicino a noi. Non possiamo trascurare questa circostanza, anche se importuna, fratelli che soffrono. Siamo tutti stati informati che proprio su la piazza del nostro Duomo è stata indetta a quest’ora stessa una grande manifestazione di lavoratori in sciopero da diverse settimane, non tenendo conto che quest’ora e questo luogo dovrebbero essere sacri alla preghiera e al pacifico concorso del popolo. Se ciò ci può dispiacere e se dobbiamo avere delle riserve sui motivi e sui modi che hanno provocato questa manifestazione, non possiamo tuttavia non compiangere cordialmente le migliaia di famiglie operaie che oggi si trovano nell’indigenza e nell’angustia con l’amarezza nei cuori e con l’ansietà per il loro pane e per il loro lavoro… Avremmo tanto desiderato che questa festa giungesse a noi con pacifici e onorevoli accordi». Poi, un saluto accorato: «Mandiamo a tutti questi lavoratori il nostro paterno saluto, tutti esortando imprenditori e operai ad affrettare per vie pacifiche e leali la conclusione della incresciosa vertenza, a tutti augurando che il sentimento cristiano e non già il calcolo esclusivo e prevalente dei beni materiali renda più facile la professione della giustizia e della pace…».

Poi, in un angolo di giornale autorevolissimo, quasi vi fosse bisogno di qualcosa che facesse sorridere pur non smettendo di far pensare, ho letto frammenti di fiabe natalizie per definizione e attualissime per contenuto. Una raccontava la storia di un alberello, ovviamente di Natale, che dopo essere stato al centro della festa dopo la notte santa, si ritrova tutto solo, abbandonato dalla famiglia che, in precedenza, lo aveva prelevato dal bosco con lo scopo di agghindarlo a festa, destinato a rivivere, all’improvviso, la malinconia e la solitudine, a rimpiangere i tempi in cui i raggi del sole gli dicevano di gioire e ricordando, ancora, la bellezza del bosco, quando vi trascorreva le giornate estive o le notti d’inverno, sotto le stelle scintillanti. Così, la favola invita i più piccoli e, sì, pure i grandi a non ripetere l’errore del suo abete, che ha dimenticato di guardare se stesso e le meraviglie vicine, ma di vivere la famiglia che si ha accanto, riscoprendola insieme al gusto delle cose semplici.

L’altra fiaba, a me sconosciuta e perciò ancor più apprezzata, raccontava la storia di Maialino, che ama scrivere poesie e che ha il blocco dello scrittore davanti alla meraviglia che vede: il sole splendente, la neve che copre tutto, il lago ghiacciato in una fredda giornata d’inverno. E’ così che Maialino convince la sua amica mucca Adelaide a fare una bella pattinata, e sono cadute, risate e divertimento indescrivibile finché, stremati, siedono per riposarsi. È allora che si accorgono dei due occhi spalancati che li fissano da sotto il ghiaccio, quelli di un pesciolino costretto a nuotare sotto i loro piedi, come un qualsiasi pesce di Natale. Davvero una fiaba delicata, ricca di poesia e di curiosità, “una fiaba divertente che riflette sulla volontà di comunicare, e sulla tenacia di farlo anche quando le circostanze sembrano opporre ogni sorta di ostacolo, come può essere un muro di ghiaccio, metafora di tante chiusure”.

Se potete, amici, cercate fiabe e spegnete la televisione.

LUCIANO COSTA

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