Lui, Massimo Galli, tra i massimi esperti di virus e di infezioni da loro portate a spasso qui e nel resto del mondo, medico e ricercatore che ha permesso all’Istituto Sacco di Milano di fregiarsi del titolo di “eccellente” sia nella cura che nella ricerca, più che accomodante è schietto a tal punto da menar scudisciate se occorre. Tradotto significa che il professore è scomodo. Talmente scomodo da essere spesso inascoltato. Ciò non toglie che la sua stella continui a brillare, dentro e fuori dagli ospedali. Dentro perché cura e cura bene; fuori perché racconta chi siamo rispetto al nemico virus aggiungendovi quel tanto di storia dimenticata che invece dovrebbe essere ricordata: così, per precauzione se non proprio per rendere omaggio al sapere. Dentro o fuori, il professore tale rimane e, anzi, al sapere medico aggiunge il sapere storico, quello che ancora insegna la storia sottraendola al si dice secondo cui “ella nulla insegna a nessuno”. Di questo suo lato storico fanno testo le ricerche che il professore non ha mai smesso di accumulare e preparare per eventuale utilizzo “quando e come il virus lo avremo messo in archivio”. Un’arguta anticipazione del sapere storico di Massimo Galli l’ho letta sulle colonne di “Avvenire”. Avendola trovata semplicemente attuale oltre che gustosa e illuminante, ve la propongo come antidoto alla noia feriale e come integrazione del personale sapere, che sarà anche poderoso, ma che rispetto al sapere generale equivale al nulla. (Luciano Costa)
La lezione del professore
«L’undici di giugno, ch’era il giorno stabilito, la processione uscì, sull’alba, dal duomo. Andava dinanzi una lunga schiera di popolo, donne la più parte, coperte il volto d’ampi zendali, molte scalze, e vestite di sacco. (…) Nel mezzo, tra il chiarore di più fitti lumi, tra un rumor più alto di canti, sotto un ricco baldacchino, s’avanzava la cassa, portata da quattro canonici… » (I Promessi Sposi, capitolo XXXII). Sono quattrocento anni che si sa. Durante una pestilenza, una processione rappresenta un bell’azzardo. Esattamente come, mutatis mutandis, i festeggiamenti per una finale di coppa: «Finora disponevamo esclusivamente di testimonianze e stime, ma adesso abbiamo i dati reali su cui fondare le nostre considerazioni», annuncia Massimo Galli.
Si riferisce alla sua ricerca sulla peste di Milano, quella del 1630, descritta nei Promessi Sposi, da cui è tratto il passo con cui inizia la nota. Che in queste ore l’emergenza Covid ci faccia tirare il fiato, lo dimostra il fatto che il primario di Malattie infettive dell’Ospedale Sacco di Milano può dedicarsi anche agli amati studi sulla storia delle epidemie. Sono da tempo uno dei suoi interessi scientifici. Lui è uno dei simboli della nuova Resistenza, anche se sul punto taglia corto, dicendo «mi sono trovato qui e ho fatto la mia parte». In realtà, sul fronte ospedaliero, questo è stato il nostro Piave. «Medici e infermieri: siete l’Italia. Grazie», campeggiava su un famoso striscione rimasto appeso per mesi davanti all’Istituto Sacco, dove Galli ci lavora dal 1978. Paragonare Covid-19 e la peste è azzardato, sul piano eminentemente scientifico. Però i ricorsi storici ci sono, e sono molti. Anche quella del 1630 vide impegnati gli Ufficiali di Sanità che dettavano le regole. Anche allora c’era un Tribunale di Sanità. Anche la Milano del 1630 aveva un primario come Galli, il protomedico Ludovico Settala, non sempre ascoltato dalle autorità e poco amato dai portatori degli interessi economici. Ovviamente c’erano e ci sono ancora delle differenze. La peste si diffonde per contatto – solo nella sua forma polmonare, che è rarissima, il contagio avviene tramite aerosol – ed è necessario uno scambio di ectoparassiti, come pulci e probabilmente anche pidocchi. Ma questo lo sappiamo noi, adesso.
Ai tempi di Settala era un po’ come nell’inverno del 2020 con il Sars-CoV-2, cioè non si aveva idea di come il malanno si diffondesse e da cosa fosse causato. Tuttavia, un’analoga pestilenza nel 1576, sempre a Milano, aveva già insegnato quanto fossero pericolosi gli assembramenti e ciò nonostante quella ostensione – nonostante la riluttanza dell’arcivescovo, il cardinale Federigo Borromeo – si fece lo stesso, tutti fiduciosi che avrebbe fermato le morti. Non fu così. « La processione passò per tutti i quartieri della città: a ognuno di que’ crocicchi, o piazzette, dove le strade principali sboccan ne’ borghi, e che allora serbavano l’antico nome di carrobi, ora rimasto a uno solo, si faceva una fermata, posando la cassa accanto alla croce che in ognuno era stata eretta da san Carlo, nella peste antecedente, e delle quali alcune sono tuttavia in piedi: di maniera che si tornò in duomo un pezzo dopo il mezzogiorno. Ed ecco che – scrive Manzoni nel capitolo XXXII –, il giorno seguente, mentre appunto regnava quella presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l’occasione, nella processione medesima… ».
Galli apre un file e mostra il suo tesoro: «Vede? Abbiamo fatto la geolocalizzazione delle parrocchie studiando l’influsso della processione. Non siamo più alle stime: siamo riusciti a dare una data di morte, un nome, un cognome e un ‘indirizzo’ a cinquemila vittime. Ne deriva che è possibile che la processione abbia influito in modo importante sulla diffusione del morbo, specie nelle aree centrali della città, che fino a quella data erano state solo parzialmente colpite». Proprio come è successo dopo Atalanta-Valencia? Si dice che la storia insegni. Se non altro, perché la peste non è archeologia. «Non parliamo di una malattia morta – osserva il medico – ma ben presente in Africa, dove si è verificata un’epidemia nel 2017, in Madagascar, tra l’altro prendendo i caratteri allarmanti di peste polmonare».
Le similitudini con Covid-19 appartengono al vissuto e, come dimostra il passo manzoniano, i meccanismi sociali e i condizionamenti culturali che favoriscono la diffusione del virus (Sars-CoV-2) o del batterio (Yersinia pestis) presentano sconcertanti analogie. Anche sul tema dell’untore. «Nell’antica Grecia, per esorcizzare un’epidemia, si individuava uno straniero a cui attribuire la colpa e, in mancanza di questo, un cittadino deforme, inviso, diverso, da buttar fuori dal villaggio o peggio. È il pharmakòs, il capro espiatorio biblico personificato in un presunto colpevole da sacrificare. Il rimedio, accezione che poi viene estesa alle sostanze curative, ma anche, con lo stesso termine, ai veleni. L’attitudine a negare con forza ogni responsabilità per una malattia infettiva attribuendola ad altri è dura a scomparire, anche ai giorni nostri, quando pochi sono disposti a considerare una malattia come una punizione divina da deviare lontano da sé».
Evidentemente, non sta parlando lo storico, ma il protagonista di tante polemiche e scontri televisivi (e non). Massimo Galli ha un conto aperto con i negazionisti-riduzionisti e con i no vax. Definisce i primi ‘subcultura’ e ritiene che i colleghi che li supportano agiscano più per ‘appartenenza’ politica che su basi scientifiche. Con i politici ha qualche sassolino da togliersi. «Personalmente, ho sperimentato difficoltà significative quando si è insediato il primo governo cinque stelle. Allora la componente scettica nei confronti dei vaccini era forte, al punto da influenzare la formazione delle commissioni tecniche. Non è che uno se le dimentica queste cose…».