Cultura

Eravamo analfabeti, poi arrivò Manzi…

La televisione arrivò in Italia attorno agli anni Cinquanta e incominciò a diffondere il suo segnale, allora monopolio esclusivo della Rai, a partire dal 1954. Allora chi possedeva un apparecchio televisivo, se non proprio ricco era almeno benestante. Al mio paese bimbi, ragazzini e ragazzi  facevano la fila per essere ammessi, in cambio di cinque lire in due, nella sala vicina al bar per vedere Rintintin, che era il piatto forte della TV del pomeriggio; la sera la fila la facevano i grandi, che in cambio di una consumazione (un bicchiere di spuma o un calice misto del valore complessivo di quindici lire) potevano accedere alla visione di “lascia o raddoppia?” in cui Mike Bongiorno dispensava lirette in cambio di risposte a domande progressivamente difficili e complicatissime. Poi, i televisori, venduti a piccole rate mensili da abilissimi commercianti che arrivavano dalla città e dai paesoni fino ai minuscoli borghi, diventarono parte fissa del vissuto familiare. Però, quell’Italia che si era lasciata alle spalle un’altra guerra, oltre che povera era anche in gran parte analfabeta. Che fare? Le scuole avevano ripreso a funzionare, ma erano per i bambini ed era impensabile aprirle agli adulti, magari genitori o nonni, che senza colpa non avevano avuto il tempo necessario per finire di imparare a leggere e a scrivere in maniera accettabile. Però, c’era la televisione. E allora, perché non sfruttare proprio quel “cubo magico” per diffondere quel minimo di sapere indispensabile a cancellare la piaga dell’analfabetismo? Detto e fatto. Così, la sera del 15 novembre 1960, appena sessant’anni fa, tra “Rintintin” e “Lascia o raddoppia?” trovò spazio il viso sorridente, affabile e subito familiare di Alberto Manzi, di professione maestro, destinato a diventare il “maestro degli italiani”, che ogni sera prima di cena, dal lunedì al venerdì, per otto anni si affacciava per offrire lezioni semplici, buone, utili e garbate, necessarie per mettere gli italiani alla pari di fronte al sapere minimo indispensabile. Insegnava a leggere e a scrivere, non aveva la pretesa di scalare le vette del sapere, gli bastava regalare nozioni utili alla vita, insegnare a far di conto e, soprattutto, a leggere per non essere imbrogliati e a firmare correttamente per non essere scambiati gli uni per gli altri.

Alberto Manzi, da bravo maestro, non credeva nei voti e nei giudizi, preferiva il colloquio e la condivisione, che pur essendo virtù non sempre venivano giustamente valorizzate. Infatti, quando la Rai lanciò l’idea di un programma intitolato “non è mai troppo tardi”, incominciò a cercare maestri in grado di reggere la scena. In teoria dovevano essere veri e propri sussidiari, in pratica si rivelavano bravi ripetitori di lezioni già apprese. Tutti uguali, meno Alberto Manzi, che quando si presentò per il provino non accettò di recitare la lezione prevista, tutta impostata sulla lettera “o”. Strappò il copione e chiese fogli carta. Li attaccò al muro e cominciò a disegnarci sopra col gessetto. Se «la televisione è immagine in movimento» spiegò allora bisognava trovare una formula che alimentasse l’attenzione. Così lui, senza pretendere più di quanto era possibile immaginare, provò a schizzare qualcosa che per i più sarebbe stato incomprensibile, ma che alla resa dei conti era ciò che serviva per tenere lo spettatore fisso sul programma. Allora una voce disse: «Abbiamo trovato il maestro». E da lì incominciò il lungo viaggio della televisione italiana nel cuore del sapere da offrire. Incominciò sempre da lì la dimostrazione delle sue potenzialità didattiche, che un programma semplice, intitolato “non è mai troppo tardi”, esaltava al punto da renderlo un efficace strumento nella lotta all’analfabetismo. Non a caso Manzi e il suo programma vennero premiati dall’Unesco e imitati in ben 72 Paesi del mondo.

Il maestro degli italiani divenne popolare, diventò un amico di famiglia, il consigliere di tanti anziani che aspettavano la sua apparizione per riprendere la lavagnetta e tentare di scrivere o fare due conti. A casa del Battista, dove c’era un televisore, era uno spettacolo nello spettacolo vedere gli anziani della contrada ascoltare Manzi e, contemporaneamente, permettere ai nipotini di correggere i loro errori.

Che tempi! Il maestro degli italiani che invece di essere trattato e acclamato come un divo, restava maestro elementare, con paga da maestro distaccato presso la Rai, a cui la Rai riconosceva un “rimborso camicia” per il gessetto nero che gli sporcava i polsini. Durò dodici anni il suo impegno televisivo, ma nessuno contò gli analfabeti diventati padroni di un minimo di sapere che li toglieva dal limbo degli ignoranti totali. Finito il suo tempo di maestro distaccato, Manzi tornò da dove era venuto: nella scuola elementare, tra i suoi alunni di quinta. Poi, dopo aver scritto libri, formato maestri, dato ulteriore valore alla pedagogia, il 4 dicembre del 1997 salutò parenti e amici e si diresse sereno e contento verso il monte dal quale partivano tutti i segnali necessari per trasmettere notizie e programmi capaci di educare e di insegnare. Di lui restano ricordi bellissimi e anche la fotografia che lo ritrae con alle spalle la lavagna sulla quale amava scarabocchiare per obbligare i suoi “vecchi alunni” a non perdere il filo del discorso, dei numeri allineati e delle parole scritte.

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