E’ il giorno che invita a mettere prima di ogni altra incombenza il dovere di spiegare alle nuove generazioni il valore della dignità di cui ogni persona, quale essa sia e da qualunque parte provenga, deve essere rivestita. E’ il giorno che ricorda la fine di Auschwitz (il campo di sterminio nazista in cui milioni di ebrei, di persone appartenenti a etnie diverse, di nemici della dittatura nazista e invece amanti di un mondo liberato e finalmente abitato da fratelli) e di tutti i lager che la mente contorta e crudele degli aguzzini, servi di un potere ridicolo e di un’ideologia assurda, aveva attrezzato immaginandoli “anticamere della razza pura”. Era il 27 gennaio 1945: cadeva il velo che oscurava i crimini commessi dal regime nazista, si alzava finalmente l’alba radiosa della liberazione; iniziava un tempo nuovo e un nuovo ordinamento fondato su libertà e democrazia si faceva strada chiedendo di essere posto al centro degli impegni che ciascun Stato doveva assumere se il fine era quello di assicurare piena dignità alle persone. Quel 27 gennaio 1945 cambio il corso degli eventi: fece crollare il nazi-fascismo; aprì le porte alla redenzione dei popoli; pose le basi per far nascere l’Europa; fece intendere l’inutilità della guerra, l’assurdità dei reticolati, dei forni e delle camere a gas; sconfisse l’odio e pose le basi per far crescere la buona pianta della civiltà… Per non dimenticare le nazioni libere decisero di onorare quel giorno e di proporlo come “Giorno della Memoria”: per non dimenticare gli orrori, per onorare i morti – quelli ammazzati, bruciati o scannati e quelli consumati dalla fame e dalle privazioni – e per restituirli alla storia quali “martiri della libertà”.
Poi, a ogni 27 gennaio, giungeva l’invito di Cesare Trebeschi a pregare insieme “per suo padre Gian Andrea Trebeschi, ucciso il 24 gennaio 1945 nel campo di concentramento nazista di Gusen, per tutti i morti dei lager (ebrei, cristiani – cattolici, ortodossi, protestanti –, politici, migranti, testimoni di Geova, omosessuali, malati psichici, asociali, rom e sinti, disoccupati…), per i morti a causa della violenza e della negazione della fratellanza, morti perché vincesse la ragione e tacessero le armi”, per dire a ciascuno che “non basta essere contro qualche cosa”, che è invece necessario “imparare a impegnarsi per qualche cosa”.
Per ricordare e per regalare pensieri a chi cerca motivazioni per impegnarsi a far migliore questo tempo, ritaglio due paginette del libro dedicato a Cesare Trebeschi (è morto il 10 aprile 2020, senza neppure concedere agli amici il tempo per salutarlo) testimone di verità, di libertà e di politica come via per confermare dignità e pari opportunità a me, a noi, a voi e a chiunque si fosse trovato ad abitare la città dell’uomo. Nelle due paginette, l’autore del libro (Luciano Costa, che di questo quotidiano appuntamento è il primo facitore e il più convinto sostenitore) così racconta…
“I viaggi alle fonti della memoria”
Perché la luce risplendesse e mostrasse la via da seguire, Cesare incominciò a portare i nipoti a conoscere i luoghi in cui il papà del loro nonno era stato privato della luce – le carceri di Brescia e Verona, poi i lager di Dachau, Mauthausen, Gusen… – perché comprendessero il valore della sua testimonianza, perché quei luoghi in cui aveva onorato la verità divenissero monumenti per uomini coraggiosi, perché il suo esempio diventasse lezione per oggi e per ogni giorno che sarebbe seguito. Poi, ogni volta che il calendario annunciava la celebrazione del Giorno della Memoria, riproponevo a Cesare la stessa domanda: “Che cosa resta di quel che è stato allora seminato?”. E ogni volta ricevevo la stessa risposta: “Tutto quello che noi vecchi abbiamo già dimenticato”.
Da lì principiava, ogni volta in maniera diversa, l’esame delle responsabilità: mie, tue, sue, loro, cioè di tutti. La più amara era quella che si raggomitolava nella dimenticanza; la più crudele quella mostrata alla platea con una scrollata di spalle, segno del disinteresse totale per ciò che era stato; la più assurda quella espressa dicendo “io non c’ero, io non ho visto, io non ricordo”; la più avvilente quella metteva in dubbio il racconto dei reduci dai lager nazisti; la più triste quella che consegnava ragioni ai negazionisti, cultori del “nulla è accaduto” benché fosse palese che i morti ammazzati erano lì per chiedere giustizia. Cesare, con lucida e ragionata lentezza, mostrava allora documenti, lettere dei condannati a morte, elenchi delle vittime, le suppliche inviate agli aguzzini e carnefici da mamme spose e figli, i fogli su cui mani tremanti avevano segnato le cose che da fare appena la buriana sarebbe passata, le parole con cui il prete destinato al forno o alla camera a gas ostinatamente annunciava che nessun boia avrebbe impedito ai giusti di continuare a vivere oltre la morte imposta dall’assenza di ragione e di umanità.
“Ma se noi, noi per primi, non ridiamo credito al bene, al buono, alla bellezza, alla verità e alla libertà – diceva con un filo di voce – allora oltre la siepe ci sarà soltanto il buio”. E nel buio, come sempre purtroppo, si svelerà la nostra indole. Dimostreremo cioè che più che liberi e forti siamo impauriti dal nulla che avanza e incapaci di cancellare l’indifferenza che domina i giorni. Basta guardarsi intorno per rendersene conto: si alzano muri per tenere gli uni separati dagli altri; si dà credito alla paura benché sia palese che proprio lei genera la pazzia; si assiste impavidi al prevalere di parole che declinano la loro esistenza servendosi di vecchi e superati ismi; si dà più credito ai venditori di fumo che agli annunciatori di speranza e di pace; si spacciano per buoni quelli che invece sono soltanto cattivi pensieri e pessimi comportamenti; si proclamano riforme che tutt’al più possono essere considerate il classico brodino contro un ipotetico mal di pancia; si giustifica l’ignoranza e si privilegia il pressapochismo; si va dove tira vento e mai dove si deve faticare per impedire al vento di seminare disastri; si esalta la storia che verrà e si dimentica quella già andata, non importa se ricca di valori e di esempi incarnati da coloro che hanno dato la vita perché libertà democrazia rispetto virtù civiltà e convivenza fossero pane quotidiano e non aneliti strampalati di qualche strampalato sognatore; soprattutto, si giustifica qualsiasi forma di indifferenza e a qualunque indifferente viene assicurata giustificazione.
“E’ l’indifferenza – sosteneva Cesare – che genera mostri e mostruosità”. E fu l’indifferenza che consentì a ragazzi di età diverse, riuniti per ragionare e riflettere sulla Shoah (in ebraico antico significa rovina, desolazione, distruzione, temporale, tempesta, calamità, tumulto; negli anni trenta del secolo scorso il termine “shoah”, utilizzato per tradurre la parola tedesca “catastrofe”, divenne il modo per designare la sorte subita dagli ebrei assoggettati al giogo nazista), di restare muti e attoniti di fronte alla richiesta di esternare pensieri e riflessioni. Preferirono il silenzio. Allora venne loro proposto di scriverle quelle riflessioni, in qualsiasi maniera, purché fossero sincere. Dopo mezzora i fogli tornarono tra le mani di coloro che li avevano distribuiti: i più erano bianchi, alcuni scarabocchiati, su due c’era scritto “me ne frego”, altri tre erano occupati da una “i” scritta in modo che occupasse l’intera pagina, che sembrava frutto di un’intesa di gruppo piuttosto che un’estemporanea esternazione di dissenso e rabbia.
Cosa volesse dire quella “i” lo spiegò uno del gruppo che più di altri aveva fatto notare il suo disinteresse. “Vuol dire indifferenza – disse sottovoce -, e significa che ne abbiamo piene le tasche di predicozzi e inviti a riflettere su ciò che è stato, perché appartiene al passato e noi siamo soltanto un presente sballato che guarda a un incerto futuro”. Cesare tornò allora a ribadire che c’era “assoluto bisogno di riproporre esempi e testimonianze che forse troppo in fretta abbiamo racchiuso nel grande libro della storia”.
Padre Giulio Bevilacqua, che in casa Trebeschi aveva sempre trovato accoglienza e protezione, un giorno lontano, parlando agli studenti riuniti all’oratorio della Pace, disse che non aveva futuro “una società in cui l’indifferenza era tollerata anziché combattuta e allontanata dal contesto civile”. Con forza, invitò chi lo ascoltava a farsi carico del dovere della conoscenza, perché “solo sapendo ciò che è stato – spiegò – potremo rendere testimonianza alle idee, che valgono per quello che costano e non per quello che rendono”. Mentre sentivo il dovere di riflettere su quel che Albert Einstein aveva scritto, e cioè che “il mondo è un posto pericoloso, non a causa di quelli che compiono azioni malvage, ma per quelli che osservano senza fare nulla”, il vecchio Cesare tornò a spiegarmi che “l’indifferenza indica la mancanza di interesse o di entusiasmo, anche e soprattutto di verità”. Valeva per il passato, ma anche per il faticoso presente che stavamo vivendo e per l’incerto futuro che si annunciava.