Parecchi anni fa il Mali, nazione africana prescelta da un gruppo di volontari a dir poco favoloso per esprimere concretamente la solidarietà di tanti, mi offrì la sintesi più bella e sincera del “Ramadam”, il mese di digiuno (iniziato martedì) sacro ai musulmani, uno dei cinque pilastri dell’islam, dovere di ogni buon seguace di quella religione. Ero a Bamako, la capitale, pronto per andare a Sikasso e Koutiala dove i volontari stavano costruendo un ambulatorio e una sala maternità adatta a ospitare mamme e e neonati. In quel pomeriggio di venerdì, improvvisamente, la città si fermò e la marea di persone che aveva invaso le strade, incominciò a pregare guardando e inchinandosi verso La Mecca mentre dai minareti giungeva la voce dell’Imam. Per quasi un’ora fui testimone di una città che lasciava posto soltanto alla preghiera. Appena dopo, guardando la gente che lasciava la strada, la guida che mi accompagnava (si chiamava Pierre e parlava perfettamente il francese ma solo a spizzichi l’italiano) mi spiegò che nel Ramadam tutti erano uno, che nessuno sarebbe stato lasciato solo, che al calar della notte il cibo preparato, equivalente al “nutrimento di un povero”, sarebbe stato distribuito a chiunque si fosse accovacciato attorno al fuoco acceso dalle famiglie, perché “così vuole il Corano” e soprattutto, come stabilito dal Profeta Maometto, perché “non è un vero credente chi va a dormire con la pancia piena mentre il suo vicino soffre la fame”.
Pierre, sebbene alle dipendenze dell’Episcopo Cattolico, era un perfetto musulmano: ligio alle regole anche se pronto a difendere le ragioni di chi non la pensava come lui. Ho perso le sue tracce, ma conservo intatto il suo ricordo e il sasso che mi regalò assicurandomi che mi avrebbe protetto dai malvagi. Così, a ogni Ramadam, riannodo le fila dei pensieri e ritorno alle parole pronunciate quel venerdì a Bamako da Pierre, quelle che aveva usato per dirmi che, in fondo, eravamo granelli di sabbia della stessa spiaggia, che pregavamo, sebbene in tempi e modi diversi, un Dio “buono, giusto e misericordioso” di fronte al quale “tutti erano uno”.
Ieri, sentita la notizia dell’inizio del Ramadam e del conseguente obbligo, per i musulmani, di astenersi dal cibo dalla mattina alla sera, gli allievi di una prima elementare hanno chiesto alla maestra se digiunare era un castigo o un premio. Dalla confusione che la stava assalendo, la maestra si salvò grazie allo squillo della campanella.
Per aiutare chi non sa cosa effettivamente sia il Ramadam e magari sollevare qualcuno che non avendo conoscenza rischia di andare in confusione, ricordo che “il Ramadam è il nome del nono mese dell’anno nel calendario lunare musulmano, nel quale, secondo la tradizione islamica, Maometto ricevette la rivelazione del Corano”. Poi, è anche “il mese sacro del digiuno, quello dedicato alla preghiera, alla meditazione e all’autodisciplina”. Dal digiuno, ovviamente, sono esentati i minorenni, i vecchi, i malati, le donne che allattano o in gravidanza. Per norma consolidata “al tramonto il digiuno viene interrotto con un dattero o un bicchiere d’acqua; subito dopo segue il pasto serale”. Il digiuno è uno dei cinque fondamentai doveri che i musulmani devono assolvere. Gli altri quattro sono la professione di fede, la recita quotidiana delle cinque preghiere, l’elargizione delle elemosine e il compimento, almeno una volta nella vita, del pellegrinaggio a La Mecca. Il Ramadan è il mese più sacro dei musulmani – che nel mondo sono circa 1,6 miliardi -; e il periodo dell’anno in cui si celebra è lo stesso in tutti i Paesi in cui la religione islamica è riconosciuta. Per completezza d’informazione ricordo che il mese di Ramadan non cade sempre nello stesso periodo del calendario gregoriano, perché quello degli islamici è un calendario lunare (l’anno lunare dura circa 11 giorni meno di quello solare), e la numerazione dell’anno non coincide perché i musulmani iniziano a contare dal nostro 622 d. C., quando Maometto lascò La Mecca per recarsi a Medina. Perciò, il Ramadam 2021, iniziato il 13 aprile si concluderà il 13 maggio.
L’altro ieri, spiegando ai lettori di Avvenire il Ramadam, Giovanni Zavatta ha scritto che “se il digiuno materiale serve per misurare la sofferenza avvicinandosi a coloro che, nel mondo, patiscono povertà e precarietà, l’astinenza prescritta raggiunge l’obiettivo solo con l’esemplarità dell’insieme, corpo e spirito, in una coesistenza armoniosa ed equilibrata di azioni e parole dalle quali vanno allontanate la menzogna, la calunnia, la collera, così che il percorso sia di crescita e disseminato di buone intenzioni, da compiere con responsabilità e rigore”.
Leggendo e cercando di capire il senso di un tempo così impegnativo qual è quello del Ramadam, improvvisamente, ho allora immaginato un dittatore qualsiasi (assai simile al turco che al sentirsi definire dittatore – e mai definizione sembrò più appropriata -, si è sentito offeso) mettersi nella prima fila della moschea, pronto a pregare e magari a giurare fedeltà alla Parola del Profeta (immagino anche laddove raccomanda di allontanare la collera per far posto alle buone azioni e alla misericordia) pur avendo sullo stomaco la responsabilità di aver violentemente messo il bavaglio alla libertà di espressione di tanti pacifici cittadini e sotterrata con disprezzo ogni forma di democrazia diretta.
Quel dittatore, proprio nel giorno che iniziava il Ramadam, parlando ad alcuni giovani da lui convocati a palazzo, aveva sottolineato la maleducazione di chi l’aveva definito con quel termine (Mario Draghi, Capo del Governo Italiano) “uno che non conosce la storia – ha detto ai giovani -, persona nominata e non eletta”. Unanime il sostegno dato a Draghi, pepato il commento del leghista Calderoli, che senza troppo badare alla forma ha confezionato un “finalmente (Erdogan) ha gettato la maschera e mostrato il solito volto del tiranno” che valeva ben più di una improvvisata manifestazione di solidarietà. Tutto questo fuori dalla Turchia. Dentro la Turchia, invece, lo stesso giorno, suscitava scalpore la decisione con cui la Corte Suprema d’Appello revocava la condanna a dieci anni di carcere inflitta allo scrittore e giornalista Ahmet Altan, accusato di essere coinvolto nel tentativo di golpe del 2016 e diventato “uno dei casi simbolo della repressione del presidente Erdogan contro giornalisti e intellettuali”.
Sul Bosforo, sono sicuro, soprattutto adesso, c’è ancora chi canta “viva la libertà”.
LUCIANO COSTA