Ricorreva ieri il cinquantottesimo anniversario dell’uccisione a Dallas del Presidente John Kennedy e l’amico Giovanni, quello con cui ho condiviso i primi anni alla ricerca del come varcare la soglia delle redazioni importanti (allora le milanesi erano il massimo possibile e immaginabile), mi ha scritto per ricordare quella volta che cercammo di investire quattro lire in una penna, non una qualsiasi, ma la stessa che John Fitzgerald Kennedy usava per firmare decreti, documenti, patti e accordi, che poi lasciava regolarmente in eredità al suo interlocutore.
Era l’autunno del 1963 e Kennedy era appena stato in Italia per una visita ufficiale, prima a Roma e poi a Napoli: a Roma aveva scombussolato il cerimoniale cercando i luoghi del mito piuttosto che il mito dei palazzi della politica, mettendo accanto agli impegni istituzionali propri di un Capo di Stato in visita ufficiale anche quello di andare dal Papa (allora Paolo VI, succeduto a Giovanni XXIII appena quattro mesi prima) per parlare di pace e di fratellanza; a Napoli per mischiarsi alla gente e capire di che pasta fosse fatta e quali erano le risorse cui ogni giorno s’appellava per restare a galla.
Trovammo la stilografica – marca Sheaffer, nera, affusolata, bellissima -, ma al momento dell’acquisto ci ritrovammo in due a disporre solo della metà del prezzo richiesto. Allora sbrigammo la faccenda e la vergogna sussurrando al commesso del mitico negozio milanese un rispettoso “sarà per un’altra volta”. Per la cronaca, non ci fu altro tentativo di acquisto collettivo, ma la successiva occasione mi venne offerta dalla mancia che la zia Esterina elargì dopo averle fatto compagnia per un giorno intero.
Ieri, 22 novembre 2021, ho ripreso quella penna e l’ho osservata a lungo: mi ricordava il John Fitzgerald Kennedy che aveva regalato sogni e nuove speranze di pace al mondo, ma anche l’uomo della nuova frontiera, ucciso perché non potesse più distribuire sogni e speranze. Sono passati cinquantotto anni, ma John Fitzgerald Kennedy vive ancora con le sue idee, i suoi ideali e la sua inaffondabile fiducia nella possibilità di far incontrare gente proveniente da mondi diversi, pronta a darsi la mano e a camminare insieme verso un magnifico e pacifico futuro. Sono passati cinquantotto anni, e la piccola-preziosa-affusolata-bellissima stilografica nera, ogni giorno mi ricorda che in quegli anni straordinari un giovane americano, non per caso Presidente degli Stati Uniti d’America, aveva dato sostanza e credibilità all’idea di un mondo felice in cui a ciascuno fossero garantite pari dignità e pari opportunità.
Di quel giovane americano che cercava mondi nuovi in cui far convivere bianchi, neri, gialli, rossi e chiunque altro a piacimento, ho trovato traccia domenica in quel che papa Francesco ha detto iniziando il cammino verso la Giornata Mondiale della Gioventù del 2023, che sarà celebrata a Lisbona. Francesco invitava a guardare oltre il buio e oltre la notte, chiedeva a ciascuno di alzare lo sguardo per vedere in mezzo alle oscurità; il giovane americano, allora, non aveva esitato ad ammonire i suoi contemporanei sui rischi che il chiudere gli occhi per non vedere scorrere i bisogni e le tribolazioni degli altri avrebbe comportato. Francesco invitava ad avere “occhi luminosi anche dentro le tenebre, a non smettere di cercare la luce in mezzo alle oscurità, ad alzare lo sguardo da terra, verso l’alto, non per fuggire, ma per vincere la tentazione di rimanere stesi sui pavimenti delle nostre paure…”; il giovane americano aveva detto ai suoi “non chiedete cosa il vostro Paese può fare per voi; chiedete cosa potete fare voi per il vostro Paese”. Francesco chiedeva di avere il coraggio di “non rimanere rinchiusi nei propri pensieri, impegnati a piangersi addosso”; cinquantotto anni fa, quel giovane americano tracciava le linee di un umanesimo nuovo.
L’atro ieri Francesco sosteneva il diritto di essere “capaci di sognare”; quel giovane americano, memore dell’insegnamento lasciatogli da Martin Luther King (ucciso nel 1968 perché allora le sue idee disturbavano e inquietavano e perché quell’America non accettava “lezioni” dalla gente di colore), ripeteva il suo grido: “I Have a Dream”, io ho un sogno, il sogno che questa nazione si alzi e diventi veramente uguale.
Francesco e John, due tipi un po’ così, straordinari, coraggiosi, pronti a smettere la giubba e a indossare il saio e ad andare per il mondo a seminare sogni di buon futuro, di amicizia, di pace, di fratellanza. Mentre John riposa nel paradiso dei giusti, Francesco è qui adesso per dire ai vecchi di non avere paura di lasciare il passo ai giovani che avanzano e ai giovani di “avere il coraggio di andare controcorrente, senza scorciatoie, senza falsità, senza doppiezze”, perché questo nostro mondo “non ha bisogno di altri compromessi ambigui, di gente che va di qua e di là come le onde del mare — dove li porta il vento, dove li portano i propri interessi —, di chi sta un po’ a destra e un po’ a sinistra dopo aver fiutato che cosa conviene”; perché questo mondo “non ha bisogno di equilibristi che cercano sempre una strada per non sporcarsi le mani, per non compromettere la vita, per non giocarsi sul serio”. Invece, diceva Francesco ai giovani convenuti “siate liberi, siate autentici, siate coscienza critica della società, non abbiate paura di criticare, perché questo mondo ha bisogno delle vostre critiche…”.
LUCIANO COSTA