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Pensieri Montiniani su guerra e pace

Tra i bresciani presenti a Roma per accogliere il Milite Ignoto e dargli degna sepoltura nell’immenso Altare della Patria, c’era anche un cronista d’eccezione. Si chiamava Giovanni Battista Montini, prete da poco più di un anno (era infatti stato consacrato presbitero il 20 maggio 1920 nella Cattedrale di Brescia). Era il 4 novembre 1921, terzo anniversario della conclusione della Prima guerra mondiale, e quello che sarebbe diventato papa assumendo il nome di Paolo VI si trovava in piazza Venezia, insieme al padre Giorgio Montini, deputato del Partito popolare, per assistere agli onori tributati alla salma del Milite Ignoto, che dalla basilica patriarcale di Aquileia (dove era stata scelta, dalla madre di un irredentista disperso, tra undici bare di soldati sconosciuti rinvenuti nei diversi campi di battaglia) era stata portata a Roma e solennemente deposta al Vittoriano.

“La manifestazione per il Soldato Ignoto è stata ciò che di più grandioso si poteva immaginare” scrisse allora il futuro pontefice in una lettera ai familiari, aggiungendo tutte le emozioni vissute e le preoccupazioni sollevate da così imponente “adunata di popolo”. Raccontando quei giorni, Elena Versace, ricercatrice e storica, parla di “un’imponente cerimonia che aveva radunato nella capitale, insieme alle massime autorità del Regno, circa trecentomila persone provenienti da tante parti del Paese”, Come ben si sa, si trattava in gran parte di reduci del conflitto, di decorati dei diversi reggimenti, invalidi, mutilati, vedove e madri di fanti caduti e dispersi, “seguiti da bande militari – scrive la ricercatrice – che fecero risuonare le note della celebre ‘Leggenda del Piave’ e, composto dallo stesso autore per quell’occasione, dell’Inno al Milite Ignoto”.

Agli occhi di don Giovanni Battista Montini, allora impegnato a studiare le regole della diplomazia vaticana, quel raduno apparve come “uno spettacolo d’esaltazione nazionale”. Don Battista, che aveva accolto nei giorni precedenti una rappresentanza di reduci giunti da Brescia nella capitale “per le onoranze al Soldato d’Italia”, appena due mesi prima, dal 3 all’8 settembre, aveva vissuto il Congresso nazionale della Gioventù cattolica italiana che celebrava il cinquantesimo di fondazione, al quale presero parte oltre ventimila giovani che, come scrisse al fratello Lodovico “pregarono per i nostri morti di guerra, in ginocchio, in piazza Venezia”.

Più tardi, ricostruendo le vicende della Fuci di quegli anni, don Montini definì la Prima Guerra Mondiale un “flagello inondante” e i giovani studenti succubi di quell’onda impressionante. “Forse – scriveva a metà degli anni Venti in un opuscolo diffuso dalla Fuci – nessun’altra associazione diede una percentuale più alta di soldati alla patria”. Allora furono gli assistenti ecclesiastici a tenere in vita l’associazione, continuando ad assistere i giovani fucini in guerra, incoraggiandoli e sostenendoli. E mentre Lodovico, suoi fratello maggiore, era impegnato nel conflitto, don Giovanni Battista, dichiarato inabile, seguì ogni evento della guerra, arrivando a temere anche per le sorti della sua Brescia, minacciata dall’avanzata degli austriaci. E, ricordando quelli che definiva “i vinti incolpevoli di Caporetto” ma “non traditori”, qualche anno dopo riconosceva “la dignità civile e militare” del Paese.

Prima di essere consacrato sacerdote, durante il secondo anno di guerra, Giovanni Battista, scrivendo a un amico già al fronte diceva: “Li seguiamo tutti i nostri soldati e al di sopra di ogni ricreazione, in fondo ad ogni chiasso sta il pensiero di loro, pensiero d’amore, di gratitudine, di compassione, di preghiera”. Eppure, aggiungeva “il desiderio delle notizie ci fa dimenticare la gravità delle notizie stesse”. Con molto realismo ed evidente preoccupazione, nel settembre dello stesso anno, annotava: “Quanti ti sanno ripetere tutto il giornale e non sanno cosa significhi guerra. E invece, a dispetto d’ogni discorso, d’ogni civiltà, imperversa questo immane suicidio dell’umanità”. Non a caso il giorno della Vittoria, 4 novembre 1918, don Battista scrivendo al fratello Lodovico, sottolineava come “la catastrofe parla: parla la storia, e ci parla, come un chirografo vergato di sangue, ci parla necessariamente della Provvidenza che sa trarre dal libero intreccio degli eventi umani un prestabilito ordine di bene”.

Secondo Elena Versace “negli scritti giovanili di Montini è possibile rinvenire amor patrio e passione civile, amplificati nel triennio di guerra sotto lo stimolo degli eventi bellici e ispirati dalla storia e dalla tradizione familiare”. Allora fu facile attribuire a ciò che don Battista scriveva il titolo di patriottismo. Ma proprio lui, in un articolo pubblicato su La Fionda nel settembre del 1923, intitolato Osservazioni elementari sul patriottismo, a spiegare il senso più compiuto di questo termine, mettendo in guardia da un distorto sentimento patriottico e dal pensare la patria “come l’unica patria del mondo”. Invece, il patriota cattolico, “amando la patria non rinuncia ad amare l’umanità intera e ad abbracciarla in un sentimento fraterno di unione e solidarietà”.

Il 4 novembre del 1964, l’anno successivo alla sua elevazione al soglio pontificio, ricevendo in udienza un gruppo di reduci, Paolo VI parlò a tutti e a ciascuno dicendo: “Siamo convinti che un ex combattente, il quale converta in energie morali i ricordi del tragico dramma, abbia in sé una sorgente di alti pensieri e che sia perciò idoneo, se non più a impugnare le armi della guerra, a ben maneggiare quelle della pace. Infatti, coloro che hanno fatto da bravi soldati il loro dovere militare – concludeva il Papa – ritornati alla vita civile, possono trarre dalla esperienza passata e dalla passione sofferta un nuovo significato della propria vita…”. Lo stesso che servirebbe oggi per passare da ricordi doverosi a doverosi impegni di pace. Quella pace che non è solo assenza di guerra, ma che è giustizia applicata, dignità umana assicurata a chiunque, sviluppo omogeneo, uguaglianza testimoniata e vissuta, salvaguardia del bene terra… Tutte cose che Paolo VI, al pari di tanti profeti inascoltati che l’avevano preceduto, aveva coraggiosamente gridato ai popoli della terra; tutte cose che anche adesso dovrebbero essere messe in circuito. Semplicemente perché ancora attuali.

LUCIANO COSTA

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