Cultura

Per non smettere di onorare libertà e democrazia

Tra le carte raccolte a suo tempo per raccontare la storia di un prete coraggioso (don Giovanni Antonioli, andato avanti lasciando esempi straordinari e lezioni di umanesimo che non smettono di essere attuali) ne ho scoperte alcune, sfuggite all’attenzione del momento sebbene fossero cronaca di giorni e di persone che meritavano attenzione, che non posso di nuovo lasciare inevase. Racchiudono la storia di Augusto Paganuzzi, un bresciano diventato testimone di civiltà e ottimo medico, e di Franco Passarella, anche lui bresciano che in quegli anni controversi, lasciò la città per andare a cercare verità e futuro sulle montagne in cui gli uomini della Resistenza lottavano per conquistare libertà e democrazia. Dicono, queste carte, la passione di Augusto per far prevalere il bene, per affermare la solidarietà, per confermare il primato della verità e per sventolare la bandiera della libertà; ma le carte ritrovate raccontano anche la triste storia di Franco, un giovane che allontanandosi dalle ideologie dominanti andò coraggiosamente a cercare la verità altrove… Augusto Paganuzzi, di cui conservo memoria, ricordi e frammenti di  riflessioni imbastite attorno al senso più profondo della Resistenza, racconta… E il suo racconto postumo mi sembra il modo migliore per celebrare questo nostro 25 Aprile, che sebbene turbato dai venti di guerra provenienti da est non smette di proclamare la supremazia della Ragione, il valore della Pace, il diritto alla Libertà. Leggete queste pagine. Poi dedicate un pensiero riconoscente a chi ha lottato per regalarci Libertà e Democrazia. E sarà il modo migliore per festeggiare questo nuovo Giorno della Liberazione.

LUCIANO COSTA

 

La storia di Augusto e di Franco…

La mia famiglia, arrivata a Brescia dal Veneto nel 1932, dopo aver abitato per alcuni anni in Via Musei, si era trasferita, nel 1940, al Palazzo INCIS (Istituto Nazionale Case Impiegati Statali), in Piazza Vittorio Veneto. Io ho, quindi, passato gli anni della guerra 1940-1945 prevalentemente in questa zona di Brescia, allora molto periferica. A nord dell’Incis, in prevalenza, c’erano ancora campi coltivati o fabbriche, come l’OM e la S. Eustacchio, oltre all’Istituto Pavoniano con la sua chiesa parrocchiale. In questa grande struttura abitativa, di oltre 60-70 appartamenti, abitavano molti insegnanti e, fra questi, anche la famiglia del professor Passarella, insegnante di storia dell’arte al liceo Arnaldo (e quindi collega e poi amico di mio padre) e mio stesso insegnante al liceo. I Passarella m’invitavano spesso nella loro casa per far compagnia al loro unico figlio, Franco, di un anno maggiore di me. Diventammo quindi molto amici, sebbene non fosse un tipo molto espansivo. Da adolescenti, com’eravamo, fra noi si parlava spesso della guerra e del clima politico nel quale eravamo costretti a vivere. Io, che frequentavo moltissimo l’oratorio dei Padri della Pace, dove in pratica ho avuto la mia educazione religiosa e morale, avevo assorbito lo spirito di critica alla dittatura e di amore per la libertà che vi si coltivava, sia pure con la prudenza che i tempi pericolosi nei quali si viveva consigliava, e mi ero accorto che anche Franco era molto critico nei confronti del regime fascista. C’era quindi fra noi una solidarietà d’idee che ci aveva avvicinato reciprocamente ancora di più.

Durante tutto il periodo di guerra, specie dal 1941, facevo parte di un gruppo di giovani (eravamo una trentina circa) che aiutavano le numerosissime iniziative caritatevoli del vescovo monsignor Giacinto Tredici, sostenute e coordinate dal compianto suo segretario, monsignor Angelo Pietrobelli: raccolta e distribuzione di viveri e di vestiti ai poveri e a quelli che avevano perso tutto nei bombardamenti; ascolto ogni mattina dalle 6 alle 8, prima di andare a scuola, delle radio della Croce Rossa Internazionale e del Vaticano, che trasmettevano, in orari prestabiliti, lunghi elenchi di prigionieri di guerra, per rilevare i nomi di quelli bresciani e poterli poi comunicare alle famiglie; squadre di Pronto Soccorso, che uscivano subito dopo la fine dei bombardamenti per soccorrere i feriti e raccogliere le salme dei morti, o che si sostituivano alla Croce Bianca (non ricordo se allora fosse già la Croce Rossa!), spesso a corto di autoambulanze, per trasportare in ospedale, trasferito alla Pendolina, su semplici lettighe munite di due ruote di bicicletta saldate ai fianchi, i malati gravi bisognosi di ricovero…

Dopo l’ 8 settembre, con la successiva invasione tedesca e l’avvento del governo repubblichino fascista, noi giovani, sebbene ancora adolescenti (nel settembre del 1943 io non avevo ancora 17 anni, ma alcuni miei amici erano ancora più giovani), sentivamo che questo tipo di attività caritativa non era più sufficiente e che bisognava subito fare qualcosa di più, qualche azione direttamente mirata alla più rapida disfatta dei nazifascisti, e come testimonianza, in ciò seguendo le orme di tanti amici di età maggiore che sapevamo silenziosamente impegnati nella resistenza attiva. Durante l’estate del 1944, passata a Ponte di Legno, don Giovanni Antonioli, allora giovane curato di quella parrocchia, spesso mi chiedeva di aiutarlo per portare, di notte, armi e viveri ai partigiani nascosti nelle baite di Sommalbosco o della Val Grande di Vezza d’Oglio (una volta raggiungemmo perfino il Mortirolo dalla Val Grande salendo la Val Parola e la Val Bighera): armi che andavamo a raccogliere in Val Sozzine, sotto pietre e tronchi, ivi lasciate non ho mai saputo da chi. Altre volte mi mandava in bicicletta fino a Corteno, e da lì in Val Brandet, per portare messaggi ai partigiani del luogo. Mi fermavo dal fornaio di Corteno, il quale sapeva come preavvertire i partigiani del mio arrivo e ci riconoscevano con fischi prestabiliti.

Ma nei periodi di scuola dovevo stare in città. Avevo anche cercato di chiedere ad Astolfo Lunardi, tramite la figlia Federica, che faceva parte del nostro “gruppo del vescovo” e che era amica mia, se potevo entrare nell’organizzazione partigiana vera e propria, ma avevo avuto il consiglio di lasciar perdere. Probabilmente mi vedevano troppo giovane o un soggetto troppo irrequieto e non sicuro. L’unico incarico che avevo avuto era stato quello di distribuire ogni tanto “Il Ribelle”, il giornale saltuariamente stampato dalle Fiamme Verdi. Federica mi diceva dove l’avrei trovato: era sempre in qualche via periferica isolata, nascosto sotto le frasche o sotto i muretti in pietra dei sentieri per la Maddalena, o in Costalunga. Lo distribuivo di sera, al buio, inserendolo nelle buche delle lettere o sotto i portoni di case, scelte a caso, o, qualche volta, durante la ricreazione, anche sotto i banchi del liceo “Arnaldo”, che frequentavo, se riuscivo a non farmi vedere.

Io e Franco Passerella, nei pomeriggi passati insieme, sfioravamo spesso l’argomento della resistenza, commentavamo gli avvenimenti e spesso ci domandavamo cosa si sarebbe potuto fare da soli noi due. Mai da lui ho saputo quello che poi ho letto nell’Enciclopedia Bresciana di Don Antonio Fappani (vol. XII, pag. 177, ediz. 1996): che “Franco Passarella era entrato nella Resistenza, sulle orme del padre Ottorino, assumendo anche incarichi rischiosi nella Brigata G.R. Barnaba”. Se è stato scritto, certamente lo era. Se, quindi, mai me l’ha detto è forse perché, su questi argomenti, meno si parlava e meglio era. E Franco era già allora molto riservato e taciturno. E’ in ogni caso poco verosimile che Franco, se fosse stato inquadrato nelle formazioni della Resistenza, fosse poi andato in montagna, come ha fatto, senza prima informarsi dove e con chi e senza farsi prima presentare dai suoi capi o da qualcuno.

D’altronde, io stesso non ho mai detto a lui, per molto tempo, quello che facevo di mia iniziativa, senza neppure che i miei genitori lo supponessero. Soprattutto nell’autunno-inverno 1943-1944, quando il buio arrivava presto e c’era nebbia, uscivo di casa la sera tardi per andare a scombinare tutti i segnali stradali militari, che i tedeschi avevano installato agli incroci delle strade principali, o per mettere dei chiodi d’acciaio sotto le ruote dei camion militari parcheggiati nella zona di Campo Marte o altrove, in modo che, quando si fossero avviati, di mattino, le gomme si bucassero. Poi un giorno, con molta circospezione, glielo dissi per vedere cosa ne pensava e lo trovai interessato e disposto a farlo insieme. Cambiavamo sempre zona e lo facevamo saltuariamente per evitare che qualcuno si appostasse per scoprirci; battevamo in bicicletta la zona di Canton d’Albera, di S. Eustacchio, di Via Milano, di S. Eufemia, ecc.: uno di noi davanti, senza portare nulla, in avanscoperta e a fare da palo, e quello dietro, munito di una chiave inglese, salendo sul telaio della bici per raggiungere i segnali stradali, svitarli quanto bastava per poterli ruotare verso altra direzione e quindi riavvitarli. Avevamo anche studiato come piantare i chiodi su una tavoletta di 3-4 cm. di lato perché potessero stare fissi con la punta in su e la inserivamo prevalentemente sotto le ruote posteriori, perché, poi, meno visibili di giorno.

Una volta decidemmo anche di entrare di soppiatto, di notte, nel grande parcheggio militare di automezzi, che i tedeschi avevano installato nella zona all’incirca corrispondente all’attuale ospedale civile, per sabotarli. Era una notte di nebbia; tagliata la rete di recinzione, ci infilammo sotto i camion, muniti di una pila, per svitare i tappi delle coppe dell’olio o per tagliare le cinghie di trasmissione. Fu l’unica volta che corremmo un vero pericolo. Non sapevamo che il parcheggio fosse custodito e, ad un certo punto, sentimmo dei passi che si avvicinavano. Mentre restavamo in totale silenzio e immobilità sotto al camion che avevamo scelto, vedemmo passare accanto le gambe di una sentinella. Non vi tornammo più, presi dal terrore.

Oggi, con il senno dell’adulto, è facile riconoscere che queste erano solo “ragazzate”, azioni piuttosto velleitarie e inutili, con un’enorme sproporzione fra il minimo danno che potevamo arrecare ai tedeschi e il rischio che correvamo, se fossimo stati scoperti, ma allora, nel clima nel quale vivevamo e nella passione giovanile, ci sembrava di fare qualche cosa di significativo; e lo facevamo accettando il rischio, anche se convinti che ben difficilmente qualcuno avrebbe potuto scoprirci, tanto ci sembrava d’essere prudenti.

Nella primavera del 1944 sembrava che la fine della guerra, con la disfatta dei tedeschi sulla linea Gotica, non fosse lontana… Franco Passarella incominciò a parlare di andare in montagna con i partigiani. Mi diceva che voleva farlo senza dirlo ai suoi e mi chiedeva se sarei andato con lui. Voleva andare con i Garibaldini più che con le Fiamme Verdi. Io non avevo questa intenzione, non mi sentivo di farlo senza dirlo ai miei, sarebbe stato dar loro un dispiacere troppo grande e se l’avessi detto, essendo minorenne, non mi sarebbe certamente stato concesso. Anche a lui consigliavo di non farlo: era figlio unico, aveva solo un anno più di me; gli proponevo, semmai, di parlarne prima con i suoi. Dopo questi scambi d’idee non accennò più alla questione; continuò ad andare a scuola, finì l’anno scolastico, ma poi, un giorno, improvvisamente sparì. Immaginai cosa fosse successo; non avevo il coraggio di avvicinare i suoi genitori, per paura che mi chiedessero se sapevo qualche cosa, né essi vennero da me per chiedere informazioni. Quando, pochi giorni dopo la scomparsa di Franco, li vidi casualmente per strada, non mi chiesero nulla, né io a loro. Era una situazione imbarazzante, visti i rapporti di prima fra noi, ma così è stato. Pensavo che sapessero che il loro figlio era andato in montagna e che, naturalmente, non volessero neppure dirmelo. Allora si aveva paura di tutto e si aveva la prudenza di tacere il più possibile con tutti. Non seppi più nulla di lui per tutto il tempo di guerra, né mai chiesi ai genitori se avessero avute notizie di Franco. Dentro di me, considerato il comportamento, ero convinto che loro sapessero che lui era andato con i partigiani. Neppure immaginavo che fosse già morto; lo credevo in montagna.

Dopo la liberazione Franco non tornò. Per un po’ non me ne interessai. Nella primavera del 1945 ero libero dalla scuola, perché avevo saltato la terza liceo, sostenendo gli esami di maturità dopo la seconda, ma ero molto impegnato a tempo pieno nelle attività assistenziali del Vescovo. Ai primi di maggio, dato che conoscevo il tedesco, questi mi mandò perfino in Germania, con una colonna di 3-4 camion militari, guidati da autisti civili bresciani, offertagli dagli americani in riconoscenza della molta assistenza a vari prigionieri alleati (riusciti ad evadere dai campi di concentramento), che don Pietrobelli era riuscito ad organizzare. In una settimana di viaggio attraversammo tutta la Germania distrutta dalla guerra e, risalendo la valle del Reno, arrivammo a Wietzendorf, un paesino della Bassa Sassonia, dove esisteva un campo di concentramento nazista che ospitava molti soldati italiani. Ne portammo indietro il più possibile.

Da mia madre seppi, poco dopo il ritorno, che si diceva che Franco fosse morto. Mi feci coraggio e chiesi alla signora Passarella se sapeva qualcosa del figlio, ma scoppiò in pianto e mi disse che dalla fuga non avevano più avuto notizie di lui. Incominciai ad interessarmi del fatto chiedendo a tanti miei amici che erano stati in montagna nelle Fiamme Verdi, ma le risposte furono sempre molto generiche ed evasive: dal “non ne ho mai saputo nulla”, “nel nostro gruppo non c’era”, “doveva semmai essere con quelli della Val Trompia, se fosse andato in montagna…” fino al “non chiedere troppo in giro; sono successe tante cose brutte durante la guerra partigiana…”. Poi, un po’ alla volta si sparse la voce che fosse stato ucciso dai fascisti, durante un rastrellamento, nello stesso giorno nel quale era salito in montagna, ma anche la voce, sussurrata e con il consiglio di non approfondire, che fosse stato scambiato per una spia fascista e ucciso dagli stessi partigiani garibaldini della Val Trompia: quelli guidati dal dottor Gerola; il quale, però, anche anni dopo, a me l’ha sempre negato.

Che fosse stato ucciso dagli stessi partigiani è poi risultato vero. Non ho mai saputo da quale formazione, né più lo chiesi. In tutti i casi, si è trattato di un’azione molto grave. Anche nel clima di allora, di fronte ad un ragazzo così giovane, senza la certezza che fosse una spia fascista, si sarebbe benissimo potuto e dovuto tenerlo prigioniero qualche giorno e chiedere prima informazioni, attraverso i contatti che ogni formazione partigiana aveva con i sostenitori che vivevano in città. Il padre, Ottorino, non era uno sconosciuto, era un insegnante di liceo, era lui stesso nella Resistenza, a quello che ho saputo dopo, e in breve si sarebbe facilmente arrivati a scoprire che Franco Passarella non era una spia fascista, ma un giovane desideroso veramente di unirsi ai partigiani per amore della libertà e della sua Patria.

Altrettanto grave, e senza giustificazioni morali, è stato anche il fatto che, poi, mai nessuno abbia sentito, per anni, il bisogno e il dovere di informare i genitori di quello che veramente fosse accaduto. Non basta rifugiarsi “nel clima di allora”. In tutti i casi, a mio parere, si è trattato di un comportamento deplorevole.
Sui genitori le conseguenze sono state disastrose: la madre cadde in un grave stato di depressione, sfociato poi in atteggiamenti anche dissociativi fino alla morte, e il padre si era isolato da tutti, senza più riprendersi fino alla fine. Franco Passarella andrebbe ricordato come un vero giovane eroe partigiano bresciano, morto per dare il suo contributo generoso, anche se in modo un po’ ingenuo (ma aveva solo 18 anni!), alla causa della Resistenza.

AUGUSTO PAGANUZZI

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