Un anno fa, 27 marzo 2020, un giorno piovoso e triste in cui i conti con il terribile virus gettavano scompiglio e paura tra la gente… Poi, improvvisamente, un uomo vestito di bianco scese nella immensa piazza, da solo, con il passo dell’anziano e le mani raccolte vicino al cuore pronte per innalzare la preghiera invocante misericordia e passo dopo passo la trasformò in oratorio e ospedale per le anime. Ero tra i mille e mille che davanti al televisore si chiedevano se fosse tutto vero o se, invece, quella fosse la trama di chissà quale rappresentazione dell’umana fragilità. Poi, l’uomo vestito di bianco, si fermò a pregare e a invitare il mondo a unirsi nella preghiera rivolta al Dio di tutte le con solazioni… Impossibile dimenticare, impossibile non lasciarsi anche adesso pervadere da un brivido, obbligatorio chinare il capo e chiedere che la misericordia e non la paura fosse compagna del viaggio che si deve completare.
Un anno fa, papa Francesco insegnò a chiunque che “la sofferenza va abbracciata, ascoltata, trasformata in coraggio capace di superare le inevitabili fragilità”. Era la sera del 27 marzo 2020 quando il Papa, al termine dell’ora di preghiera per il mondo ammalato e triste, andò fiero e umile a baciare i piedi del Crocifisso esposto all’ingresso della grande basilica. “Un segno di umiltà assoluta e insieme una testimonianza di speranza – ha scritto un illustre cardinale -, perché se la fede è un cammino, bisogna aprire le strade a chi conosce la direzione; se il dolore ti lascia al buio la soluzione si trova in chi porta la luce; se la croce indica fallimento e morte, il suo senso più vero è quello della risurrezione imminente”.
Certo, è risaputo che viviamo nell’era della massificazione delle immagini, in un tempo in cui si è portati a fare a meno del cielo, dentro una massa di parole che escludono il sacro e affidano ogni risorsa al profano. Però, quella sera del 27 marzo 2020, “il commosso consenso attorno all’immagine di Papa Francesco in una piazza San Pietro vuota, fu qualcosa che fece pensare, fuori e dentro lo spazio ecclesiastico”. Quella piazza vuota e arricchita soltanto dalla presenza del Papa e ldalla massa di preghiere che egli era incaricato di portare davanti al Crocifisso, diceva l’audacia di abitare la vulnerabilità come luogo dell’esperienza umana e credente; ripeteva l’audacia di abbracciare e ridare significato al vuoto; proponeva l’audacia di trovare una metafora capace di sovvertire l’angoscia della solitudine e della paura; l’audacia di pregare Dio nel silenzio di Dio…
Sul potere delle immagini Heidegger ha scritto che «l’essenza dell’immagine è nel far vedere qualcosa». L’immagine del Papa che prega e che imparte la benedizione eucaristica, in un contesto sperimentato universalmente come di desolazione, fa vedere come l’invisibile di Dio perfora i blocchi della storia e il Suo silenzio offre l’opportunità di vivere le situazioni di abbandono come fiducia e consegna nelle Sue mani. Papa Francesco, quella sera del 27 marzo 2020, disse: “Da questo colonnato che abbraccia Roma e il mondo scenda su di voi, come un abbraccio consolante, la benedizione di Dio”. Sappiamo, o forse lo sanno soltanto i cristiani, che così è stato.
Chi però era in quell’atmosfera apparteneva di diritto alla schiera di coloro che stavano cercando qualcosa, qualcuno... Quella scena includeva tutto l’essere e il divenire. “Così come strettamente collegata a quella scena – ha scritto Pupi Avati – c’è, subito dopo o subito prima, la sfilata dei camion militari con le bare. Quella notte del nostro presente fa ormai parte nella memoria collettiva, si tratta di immagini iconiche definitive che non possono essere sostitute da altro. E temo che nel momento in cui saremo restituiti alla rassicurazione di aver debellato la pandemia, purtroppo quel proselitismo laico così diffuso tornerà a rialzare la testa, con questa necessità di sbarazzarsi degli aspetti spirituali della vita. E con esso si perderà quella necessità che abbiamo nei momenti di estrema difficoltà (che ognuno di noi ha vissuto e vive singolarmente e che stiamo vivendo ora nella collettività) di non sapere a chi rivolgersi, una necessità che, in qualche modo, deve permettere di lasciare aperto uno spiraglio per appunto ammettere il proprio limite e rivolgersi a qualcuno, qualcosa, che può provvedere. Nella necessaria illusione di doverci credere io vado in chiesa molto spesso a chiedere a Dio di esistere. Io credo che il Papa abbia chiesto, a nome di tutti, a Dio di esistere”.
Quella sera del 27 marzo di un anno fa, tutti noi – tutti noi credenti, oppure dubbiosi o lontani – tornammo a vedere il Cielo e a sperare un tempo nuovo… Adesso, questo tempo nuovo, lo intravediamo, ma domani lo vedremo e lo abbracceremo. Perché nessun virus potrà e dovrà impedire alla gente di alzare gli occhi e di vedere il sereno che chiede spazio e vuole splendere per chiunque voglia intenderlo amico e compagno del viaggio intrapreso.
LUCIANO COSTA