Quarantacinque anni fa il terremoto sconvolse il Friuli e obbligò l’Italia a misurare la propria fragilità e anche la sua grande capacità di esercitare solidarietà concreta. Un amico, che ogni anno dal suo paese immerso tra le colline friulane rinnova il suo “mandi” a tutti quelli che allora aiutarono a ricostruire il ricostruibile, mi ha scritto ieri un messaggio per dire che “nonostante il silenzio, qui la gente ricorda e ancora ringrazia”. Non ho dimenticato. E quel giorno, nonostante gli affanni e le miserie seminati dalla pandemia – un terribile terremoto che non fa sobbalzare la terra e squassare le case, ma che la terra che ci ospita la riempie ugualmente di lutti e di croci – resta vivo nella memoria e mi spinge ogni anno a riannodare le fila dei pensieri…
Era giovedì 6 maggio 1976, una giornata qualsiasi. Poi, alle 21.07, in quell’angolo d’Italia chiamato Friuli Venezia Giulia (una terra benedetta ma anche campo santo di tantissimi eroi caduti in guerra per difendere l’onore del Paese e assicurargli confini non più traballanti) ecco abbattersi l’atroce tragedia: mille morti, migliaia di feriti, centomila senza tetto, una ottantina di paesi ridotti a brandelli… Quel giovedì sera, nel cinema dell’oratorio di Collebeato spiegavo a un buon numero di giovanotti la genesi di un film e dettavo suggerimenti per vedere e, alla fine, discutere quel che s’era visto. Alle 21.07, mentre concludevo la presentazione, avvertii quella scossa tremula e prolungata. La voce si perse per un attimo, ma ritornò giusto in tempo per annunciare la proiezione e dare appuntamento per il dibattito. Del terremoto, dato che stavo ritto in piedi, mi ero accorto soltanto io. Allora non c’erano telefonini e neppure giravano messaggi e messaggini. Nella sala cinematografica era come se nulla fosse accaduto. Fuori, invece, diecine di persone si aggiravano incredule chiedendo se e come quella scossa fosse stata avvertita. Dal telefono del bar più vicino chiamai il giornale. In redazione, agli incaricati della chiusura, non risultavano scosse di terremoto localizzate in provincia di Brescia. Però l’Ansa, che allora era il grande mezzo di informazione immediata, stava battendo notizie di un terremoto localizzato a nord di Udine. Trenta minuti più tardi era chiaro che in Friuli il terremoto aveva spazzato via paesi e causato la morte di diecine di persone. Che fare? Ai partecipanti al cine-forum qualcuno andò a dire che non era il caso di restare in sala. Il curato decise di sospendere la proiezione e di rimandare tutti a casa. Io per primo corsi verso casa per rendermi conto della situazione: nessuna traccia di spavento o di preoccupazione. Potevo dunque andare a cercare notizie precise e a fare il mestiere che solitamente facevo.
Allora, senza frapporre pensieri tra la logica dell’attesa e l’altrettanto logica del sapere, chiesi al fido Oreste, fotografo di fiuto e mestieri sopraffini, d’essermi compagno nel viaggio immediato verso il Friuli. Detto e fatto. Poco dopo le due, passata Venezia, ci trovammo al casello autostradale di Udine che già ribolliva di auto e ambulanze. “Non si passa, è pericoloso” ci dissero. Dalle ricetrasmittenti delle forze dell’ordine, intanto, si snodava una drammatica cronaca minuto per minuto: “Qui sotto ci sono morti e feriti… Sento il pianto di un bambino ma non lo vedo… Stanno arrivando uomini e donne con pale e badili, vogliono scavare, non hanno neanche una pila per rischiarare la notte… Una donna sta gridando disperata, dice che lì c’era la sua casa e che sotto le pietre ci sono i suoi… Che cosa dobbiamo fare’”.
Alle prime luci dell’alba, dopo interminabili ore occupate soltanto dall’urlo delle sirene dei mezzi di soccorso e dalle imprecazioni di coloro che volevano comunque andare a vedere o soltanto proseguire il viaggio, provammo a proseguire a piedi. Fatti cento metri una pattuglia di carabinieri ci obbligò a tornare al punto di partenza. Restammo lì, con un orecchio appoggiato alla radio e gli occhi pronti a misurare qualsiasi movimento. Il giornale radio delle otto forniva i primi dati: centinaia di morti, migliaia di feriti, paesi sbriciolati, case divelte, soccorsi in movimento continuo, ospedali della regione allertati, richieste di aiuto immediato sotto forma di tende, cucine da campo e sangue per i feriti, consigli a non mettersi in viaggio e anche a non avventurarsi per curiosità nelle zone colpite, assicurazioni del Governo per un intervento immediato e globale, parole di cordoglio, la preghiera mattutina del Papa per le popolazioni colpite, il via alle prime sottoscrizioni…
Noi eravamo lì senza idee, col cuore in subbuglio, con la voglia di raccontare ma anche con la consapevolezza di essere “due in cerca di tutto e di niente”. Oreste aveva già scattato almeno cento fotografie, ma nessuna dava l’idea del disastro; invece, tutte raccontavano l’attesa di un varco che consentisse di arrivare tra le macerie per documentare, per piangere, per aiutare; io conservavo tra le mani soltanto fogli bianchi. Emozioni e pensieri, infatti, seppure forti e persistenti, restavano inespressi, racchiusi in una mente che non sapeva coniugarli e neppure spiegarli. Ad alta voce mi chiesi: “Che ci faccio qui?”. Io non trovai risposta adeguata. Invece, una suora diretta anche lei vero le zone terremotate, rispose che “nessuno sa cosa è venuto a fare e perché è venuto; però tutti sanno che al di là della strada c’è qualcuno che piange, aspetta mani disposte ad aiutare e bocche pronte a esprimere parole di consolazione e di conforto”. Io possedevo una penna e qualche foglio di carta, Oreste una macchina fotografica e l’ultimo rollino. “Siamo due incapaci d’essere d’aiuto o anche solo di raccontare il dramma”, dissi a Oreste. Il ritorno si consumò senza profferire parola. Alla fine, decidemmo che saremmo tornati.
Tornai a giugno con l’intento di offrire ai bresciani un quadro delle cose fatte e di quelle che ancora dovevano essere incominciate. Vidi esempi di vita vissuta che non avevano precedenti. “Accanto ai paesi – scrissi – sono sorte tendopoli, qualche baracca, sono state trasportate roulottes per ospitare vecchi e bambini. Si cerca insomma di vivere secondo norme di comportamento civile che non stanno scritte su nessuna carta, ma che appartengono piuttosto alla coscienza di questa gente meravigliosa”. Poi, aggiunsi: “Chi ha braccia sane e forze sufficienti abbandona presto la tenda: va a cercare quel che è rimasto della sua casa, porta al riparo quel che è possibile salvare, cerca di recuperare tutto ciò che domani potrà servigli a rendere meno gravoso il bilancio della ricostruzione. Si vorrebbe salvare tutto, anche le case puntellate”. Mi sembrò significativo e istruttivo vedere accanto alla “D” tracciata dai tecnici (che significava demolire) altre scritte che dicevano attendere. Di fronte al muro su cui appariva la lettera “D”, un anziano mi disse che quella “era la sua casa” e che “dentro c’era tutta la sua roba”, che avrebbe salvato “a costo di rimanere seppellito”. Una donna, invece, mi disse: “Non abbiamo più lacrime, le abbiamo spese tutte sui nostri morti, non su quello che di materiale abbiamo perduto”.
Era giugno e si intravedevano i segni della ricostruzione. Mentre si raccoglievano ancora macerie c’era già gente con la cazzuola e la malta che erigeva muri, e contadini che falciavano l’erba e accomodavano le vigne in vista della vendemmia d’autunno, e operai che tornavano alle fabbriche… “Ogni giorno un passo avanti verso la normalità” dicevano gli ottimisti. Invece, il 15 settembre alle 5 e alle 11.30, due nuove scosse di terremoto cancellavano le speranze appena risorte… Ma questa è un’altra storia da raccontare e meditare.
Ieri, 6 maggio 2021, quarantacinque anni dopo quel terremoto che sconvolse il Friuli, tra le pagine di un libro ho trovato il biglietto che una mamma aveva scritto al direttore della rivista “Madre” per dirgli che nell’asilo donato da lettrici e lettori aveva posto “la speranza di far crescere bimbi capaci di ricordare il bene ricevuto e di esercitare riconoscenza”.
LUCIANO COSTA