L’impressione è che, nonostante tutto, sia possibile cavarsela. Ieri, per esempio, al supermercato c’era la folla del venerdì già avviata agli acquisti per il prossimo ponte di sant’Ambrogio e Immacolata e, ovviamente, per quelli dei regali di santa Lucia e di Natale. Una sosta nel corridoio delle casse (tante e tutte ben allineate), offriva un panorama eloquente: carrelli pieni, giochi e giochini, forse inutili ma tutti carissimi in bella vista, elettrodomestici minimali, biancheria varia, oggettistica diversa… Poi, cibo, tanto cibo, carne, insaccati, precotti, formaggi, zucchero, olio, farine… Anche liquori in abbondanza. Quindi, prodotti di utilità immediate: carrelli carichi di pellet e acque minerali (usufruiti in prevalenza da stranieri), detersivi, carte igieniche e rotoloni asciuga tutto. A sprazzi qualche albero di Natale finto, molte palline e pallone colorate, qualche presepio e tante pecorelle. Fuori dal supermercato, invece, facce corrucciate e commenti non certo positivi. “Meno dell’anno scorso e più euro spesi” era la voce ricorrente. “Così – aggiungeva una signora – non si può andare avanti”.
Colpa di chi? “Del Governo… E non si dica – buttava lì un giovanotto arrabbiato – che è appena arrivato. Perché basterebbe poco per imporre regole che mettano un freno ai rialzi dettati, dicono, dall’inflazione. Tanto più che in campagna elettorale sembravano tutti orientati a promettere, promettere…”. Invece, come dicono recentissimi rapporti statistici, l’inflazione ha corroso gli stipendi degli italiani tagliando drasticamente il potere d’acquisto e accelerando il processo di impoverimento delle famiglie che era già in atto con gli stipendi da anni bloccati. A certificare questo processo il Global Wage Report 2022-23 presentato ieri dall’Organizzazione internazionale del Lavoro, che vede il nostro Paese maglia nera tra i 20 dell’Ocse. A conti fatti i salari sono più bassi del 12% rispetto al 2008 in termini reali. Solo nel 2022 l’inflazione ha tagliato via un 6%, con un effetto doppio rispetto alla media dei Paesi Ue.
Le due crisi economiche del terzo millennio, quella del 2008 e quella innescata dalla pandemia prima e dalla guerra in Ucraina in un secondo momento, hanno intaccato in modo sostanziale il tenore di vita degli italiani. Se si considera il periodo 2008-2022 solo in tre delle economie avanzata del G20 i salari reali hanno registrato un passo indietro: ma proprio all’Italia spetta la maglia nera con un dislivello consistente. Secondo gli esperti “le famiglie che sono state costrette ad indebitarsi per sbarcare il lunario durante la crisi Covid ora affrontano il doppio fardello di rimborsare i propri debiti a tassi di interesse più elevati pur guadagnando redditi inferiori”. La probabilità di una recessione legata al calo dei consumi è resa più probabile dalle politiche monetarie restrittive adottate dalle banche centrali che rischiano di peggiorare la situazione”. Il rapporto rileva che il fattore chiave dietro questo calo, in particolare nel corso del 2020 e del primo trimestre 2021, è stato la perdita di occupazione. Percettori di basso salario, lavoratori nell’economia informale e le donne salariate sono stati i gruppi che hanno sofferto di più. La percentuale di lavoratori a bassi salari è passata dal 9,6% al 10,5% (percentuale che sale alle 11,8% per le donne e al 14% per chi risiede nelle regioni del Sud.
Da un altro rapporto, questa volta del Censis, emerge che ill lavoro dipendente non è più al riparo del pericolo della povertà. Nel 2021, sul totale degli occupati, il 9,7% si trovava in condizioni di povertà relativa. Fra i lavoratori dipendenti la quota sale al 10,2%, nel Sud il dato raggiunge il 18,3%. Oggi in Italia nel settore privato si contano oltre 4 milioni di lavoratori che non raggiungono una retribuzione annua di 12mila euro. Di questi, in 412mila hanno un contratto a tempo indeterminato e un orario di lavoro a tempo pieno.
Secondo il rapporto, ancora, nel 2021 le persone soggette al rischio di povertà o di esclusione sociale, poiché vivono in famiglie a bassa intensità di lavoro o a rischio di povertà, o in condizioni di grave deprivazione, sono pari al 25,4% della popolazione, ovvero oltre uno su quattro. Soffre in particolare il Sud: tra coloro a rischio di povertà o esclusione sociale il 41,2% è residente nel Mezzogiorno (a fronte del 21% nel Centro, del 17,1% nel Nord-Ovest e del 14,2% nel Nord-Est), per il 33,9% sono appartenenti a famiglie in cui il reddito principale è quello pensionistico (a fronte del 18,4% e del 22,4% appartenenti a famiglie con reddito principale da lavoro dipendente o da lavoro autonomo) e per il 64,3% sono membri di famiglie che percepiscono “altri redditi”, il 56,6% dei quali si qualifica anche come individuo a bassa intensità lavorativa. Infine viene nuovamente superata la soglia del 40% nel caso di persone appartenenti a famiglie dove almeno un componente non e’ italiano (42,2%) o dove vivono tre o più minori (41,6%).
Dal rapporto si evince anche che la crisi energetica è la principale fonte di preoccupazione per le famiglie italiane: il dato è del 33,4%, e la percentuale arriva al 43% tra le famiglie in una bassa condizione socio-economica, le più colpite dall’aumento dei costi incomprimibili. Il 6,5% delle famiglie italiane era in ritardo con il pagamento delle bollette (dato in linea con la media europea) nel 2021, ma il dato potrebbe salire ancora nel 2022. Ancora più numerosi sono coloro che affermano di non riuscire a riscaldare adeguatamente la propria abitazione: l’8,1% delle famiglie, un dato superiore di 1,2 punti percentuali al dato europeo.
Il rischio, sottolinea il Censis, è che aumentino sensibilmente sia le persone in povertà energetica, che cioè non riescono a mantenere un livello adeguato di riscaldamento casalingo (l’8,8% delle famiglie italiane nel 2020). La crescente spesa energetica sottrae inoltre risorse per il resto dei consumi. A questo quadro di preoccupazioni congiunturali si aggiunge quella più generale per la anomala crescita dell’inflazione, in grado di erodere drasticamente il potere d’acquisto e il valore dei risparmi di tutte le famiglie.
Tra gli italiani, evidenzia ancora il rapporto Censis, cresce il rifiuto per i privilegi oggi ritenuti “odiosi” ma gli italiani restano “silenti”, non scendono in piazza. Per l’87,8% sono insopportabili le differenze eccessive tra le retribuzioni dei dipendenti e quelle dei dirigenti, per l’86,6% le buonuscite milionarie dei manager, per l’84,1% le tasse troppo esigue pagate dai giganti del Web, per l’81,5% i facili guadagni degli influencer, per il 78,7% gli sprechi per le feste delle celebrities, per il 73,5% l’uso dei jet privati. Tuttavia, spiega il Censis, “non si registrano fiammate conflittuali, intense mobilitazioni collettive attraverso scioperi, manifestazioni di piazza o cortei”, ma “una ritrazione silenziosa dei cittadini perduti della Repubblica”. Alle ultime elezioni, ricorda il rapporto, il primo partito è stato quello dei non votanti, composto da astenuti, schede bianche e nulle, che ha segnato un record e una profonda cicatrice nella storia repubblicana: quasi 18 milioni di persone, pari al 39% degli aventi diritto.
Di fronte a questo nuovo contesto, osserva il Censis, “le insopportabilità sociali” elencate “non possono essere frettolosamente liquidate con l’epiteto ‘populiste'”. In realtà, si tratta di “segnali più significativi del fatto che nella società si è già avviato un ciclo post-populista basato su autentiche, legittime rivendicazioni di equità, in una fase in cui molti sentono seriamente messo a repentaglio il proprio benessere e si ingrossano le fila dei cittadini perduti della Repubblica”.
L.C.