L’iceberg è una delle immagini simboliche più efficaci in assoluto, una metafora potentissima e di immediata percezione per la nostra mente: una montagna di ghiaccio che galleggia senza controllo, ma a occhio nudo si può vedere solo in piccola parte, quella che emerge dall’acqua. La sostanza vera sta sotto, nascosta alla vista, ma non per questo meno pericolosa. Anzi. Il tragico naufragio del Titanic ha dimostrato per sempre come la minaccia più grande sia spesso quella invisibile. Succede in alto mare, ma vale anche nella vita ‘terrena’: nelle relazioni politiche ed economiche, nei matrimoni, nello sport, nei rapporti di lavoro. Mai limitarsi all’apparenza o al sentito dire, perché la verità sta sotto la linea del visibile. Lo ha spiegato benissimo Fabio Veronesi ne “Il calamaro gigante”, libro straordinariamente bello che mi permetto di consigliare a chi non l’ha letto: “Del mare non sappiamo nulla, però ci illudiamo del contrario: passiamo una giornata in spiaggia e pensiamo di guardare il mare, invece vediamo solo la sua buccia, la sua pelle salata e luccicante”. Ma è sotto la schiuma delle onde “giù giù, fino agli abissi, che esiste una vita così diversa e strabiliante da sembrarci assurda, impossibile”.
Un’incredulità simile la prova chi cerca di venire a capo della vicenda di Alfredo Cospito, l’anarchico abruzzese che nel 2014 è stato condannato a 10 anni e 8 mesi di carcere per aver gambizzato un dirigente di Ansaldo Nucleare e poi ha preso altri 30 anni per un atto di terrorismo diretto ad attentare alla sicurezza nazionale (insieme a un complice aveva piazzato due ordigni esplosivi vicino alla Scuola Allievi Carabinieri di Fossano: il primo per suscitare allarme e attirare i militari, il secondo – ad alto potenziale – per fare più vittime possibile). La fedina penale di Cospito comprende altre condanne per un attentato contro la sede dei Ris di Parma e per i pacchi bomba inviati, fra gli altri, agli ex sindaci di Bologna (Sergio Cofferati) e di Torino (Sergio Chiamparino). Si può discutere se sia giusto oppure no applicare l’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario (il carcere duro riservato a mafiosi e terroristi) a un cittadino che in fondo non ha commesso alcun omicidio (ma soltanto per una fortunata casualità, come sottolineano le carte dell’inchiesta sull’attentato di Fossano).
Il caso è complesso, ma una cosa è certa: lo Stato non può sottostare ad alcun ricatto. Né fisico né morale. Da parte di nessuno. Cospito può fare lo sciopero della fame, ma perdere 35 chili di peso non gli dà diritto di sfuggire alle leggi, soprattutto se dal carcere continua a inviare “numerosi messaggi all’esterno, invitando esplicitamente altri anarchici a continuare la lotta con mezzi violenti ritenuti più efficaci”, come ha messo a verbale l’anno scorso l’allora ministro della Giustizia Marta Cartabia per spiegare la scelta di applicare alla sua detenzione le rigide norme del 41-bis (isolamento dagli altri detenuti, limitazione dell’ora d’aria e dei colloqui con i familiari, controllo della posta in entrata e in uscita, privazione di libri e giornali). Probabilmente lo scorso ottobre, quando ha iniziato lo sciopero della fame, Cospito ha pensato di ripetere con successo l’iniziativa di protesta che nel 1991 aveva convinto il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga a concedergli la grazia dopo la condanna a un anno e nove mesi di reclusione per “diserzione aggravata”, pena che gli era stata inflitta per essersi sottratto agli obblighi di leva dichiarandosi “obiettore totale e anarchico”.
Cosa c’entra in tutto questo l’iceberg? C’entra, c’entra… E per almeno due buoni motivi: primo, perché la pietas dovuta a ogni uomo che mette in gioco la sua vita in nome di un ideale non deve far passare in secondo piano le gravi responsabilità di un militante insurrezionalista che non si è mai pentito delle sue azioni e che continua a rappresentare una minaccia per la sicurezza del Paese, come dimostrano le tensioni di piazza e gli attentati organizzati in suo nome negli ultimi giorni in varie città d’Italia e in alcune sedi diplomatiche all’estero; in secondo luogo perché il caso Cospito rappresenta solo la punta estrema di un fenomeno – l’emergenza carceri – che in Italia diventato ormai cronico e strutturale. Il sovraffollamento degli istituti di pena, le pessime condizioni di lavoro in cui sono costretti a operare gli agenti della polizia penitenziaria e il mancato raggiungimento dell’obiettivo dichiarato dalla Costituzione (articolo 27: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”), questi sì, sono fattori indegni di un Paese civile, la parte dell’iceberg che sta sotto la superficie dell’acqua e che troppo spesso non vediamo. O facciamo finta di non vedere.
MARCO BENCIVENGA
Direttore “La Provincia di Cremona”