Fatti sì, parole no. Mario Draghi non parla in pubblico da parecchi giorni (l’ultima volta lo ha fatto il 18 febbraio, in occasione del voto di fiducia al Senato), ma lontano da social, telecamere e riflettori in settimana ha firmato il suo primo Dpcm e ha preso le prime importanti decisioni da presidente del Consiglio. In pratica, finita la luna di miele con gli italiani e con la maggioranza arcobaleno che lo sostiene, Draghi ha iniziato a fare il… Draghi. Quantomeno ciò che ognuno di noi immagina faccia un ex banchiere: prima l’analisi della situazione, poi la definizione degli obiettivi da raggiungere, di conseguenza gli atti esecutivi. Con la lucidità di un matematico, la freddezza di un chirurgo e il coraggio di un parà, il premier ha finalmente indossato i panni di SuperMario. La prima mossa è stata la rimozione dall’incarico del commissario nazionale per l’emergenza Domenico Arcuri, il manager cui Giuseppe Conte aveva ottimisticamente affidato quasi tutte le competenze legate alla gestione della pandemia, dalla distribuzione delle mascherine (la scorsa primavera) al piano vaccinale (negli ultimi mesi). Due fallimenti. Al posto di Arcuri il presidente Draghi ha chiamato Francesco Paolo Figliuolo, generale degli alpini con una trentina di mostrine sul petto, in ricordo delle missioni portate a termine con successo sui fronti più caldi del mondo, dall’Afghanistan al Kosovo. Cosa ci fa un militare a Palazzo Chigi? Mette al servizio del Paese le sue competenza in materia logistica: in fondo, da oltre un anno ci ripetiamo di essere in guerra con un nemico invisibile.
Chi altro potrebbe combatterlo? Del resto, Draghi – che parla poco, ma non a caso – lo aveva annunciato durante il discorso di insediamento: «Abbiamo bisogno di mobilitare tutte le energie su cui possiamo contare: la protezione civile, i volontari, le forze armate». Detto, fatto. Meno scontata la seconda mossa: lo stop all’esportazione di 250 mila dosi di vaccino AstraZeneca confezionate in Italia e destinate all’Australia (che evidentemente era pronta a pagarle di più, rispetto all’Ue). Anche in questo caso, Draghi è stato di parola: «Le aziende farmaceutiche che non rispettano gli impegni non dovrebbero essere scusate», aveva ammonito la settimana scorsa al debutto sulla scena europea da presidente del Consiglio italiano. Semmai, aveva stupito quel «non dovrebbero», anziché «non devono»: se qualcuno pensava fosse un’improvvisa forma di debolezza, si è dovuto ricredere.
Draghi resta Mister «Whatever It Takes», costi quel che costi (letteralmente «qualunque cosa serva»): lo aveva sfoderato nove anni fa, per difendere l’Euro e l’Italia dalle speculazioni della grande finanza internazionale, e lo ripete ora, per garantire ogni dose possibile di vaccino a un popolo che rischia di tornare a intasare Ospedali, Pronto Soccorso e Terapie intensive. Se il buongiorno si vede dal mattino, SuperMario non deluderà le attese di Sergio Mattarella, il presidente della Repubblica che lo ha voluto a Palazzo Chigi, stanco di politici inconcludenti e troppo portati al compromesso. Non a caso, il centrodestra – da sempre sensibile al fascino dell’uomo forte – negli ultimi giorni sta cercando di intestarselo, per marcare la discontinuità con il Governo giallorosso che ha sempre avversato.
Draghi difficilmente si farà tirare per la giacchetta. Ma a farsi autogol potrebbero essere le forze politiche che lo sostengono dal centrosinistra: da un lato il Pd rimasto senza segretario dopo le dimissioni shock di Nicola Zingaretti («Mi vergogno che nel mio partito si parli solo di poltrone e di primarie, mentre in Italia sta esplodendo la terza ondata della pandemia», ha accusato il presidente della Regione Lazio motivando la sua clamorosa scelta), dall’altro il M5S dilaniato dalle divisioni interne, con l’ala dura ormai a un passo dalla scissione, i filogovernativi aggrappati alle poltrone che un tempo contestavano, il reggente Vito Crimi criticato da tutti, il garante Beppe Grillo che se ne va in giro con un casco da palombaro sulla testa e il figlio del fondatore Davide Casaleggio che lancia una propria corrente ControVento e minaccia di staccare la spina alla mitica piattaforma Rousseau, come i bambini che all’oratorio si riprendono il pallone se gli avversari segnano un gol in più. Intanto, avverte l’Istat, i consumi sono tornati al livello del 2000, ventuno anni fa, il Pil dell’Italia ha perso oltre 18 punti percentuali rispetto alla media Ue (solo la Grecia è messa peggio) e un italiano su dieci è finito sotto la soglia della povertà assoluta.
Queste statistiche sono sempre da prendere con le molle, come la celebre teoria del pollo: sono le stesse per cui meno dell’uno per cento degli italiani guadagna più di 75 mila euro lordi all’anno, ma allora – viene da chiedersi – di chi sono tutti gli yacht, le ville e le Ferrari che si incontrano fra Bolzano e Pantelleria? Non bastasse la conta dei morti, il rischio più grande è che, in realtà, il bilancio della pandemia sia molto più grave di quanto certificato dall’Istat. E che la lista delle vittime economiche del lockdown della scorsa primavera e delle attuali zone gialle, arancio e rosse possa essere ancora più lunga. Fosse davvero così, come probabile, l’unica possibile salvezza resterebbe lui, Draghi. La speranza è che il magico mantello di SuperMario sia talmente grande da proteggerci tutti. Ma davvero tutti. In caso contrario… meglio non pensarci.
MARCO BENCIVENGA
Direttore “La Provincia di Cremona”