Lo sport più praticato in Italia – si sa – non è il salto in lungo e neppure il salto in alto, ma il più facile salto… sul carro del vincitore. Una disciplina antica, nata nella notte dei tempi e da allora tramandata di generazione in generazione. Non poteva fare eccezione alla regola l’estate 2021, quella delle nuove notti magiche, iniziata a Londra con il trionfo europeo della Nazionale di Roberto Mancini e proseguita a Tokyo con le straordinarie imprese olimpiche degli Azzurri. Fra tante vittorie e qualche flop, a provocare un’autentica ressa per salire sul nuovo carro dei vincitori è stato il trionfo di Marcell Jacobs nei 100 piani, la prova regina dell’atletica leggera. Un successo storico, bissato venerdì dall’incredibile oro nella staffetta quattro per cento, conquistato insieme a tre compagni di squadra. Non appena il ragazzone nato in Texas si è laureato uomo più veloce del mondo, dalle Alpi a Lampedusa è partita la corsa a intestarsene un pezzetto: a Brescia lo hanno festeggiato come uno di loro, un bresciano, perché è cresciuto a Desenzano del Garda e perché a Manerba, pochi chilometri più in là, vive e lavora sua madre Viviana, a sua volta reclamata dai mantovani come mamma olimpica per aver trascorso alcuni anni a Castiglione delle Stiviere, anche se ha emesso il primo vagito all’ospedale di Cremona.
Quasi in contemporanea, a Roma hanno sottolineato come il nuovo bi-campione olimpico debba essere considerato romano, perché ormai da tempo vive e si allena lì, anche se la fidanzata e madre di due dei suoi tre figli lo aspetta a Novi Ligure, in Piemonte, dove pare andranno a vivere insieme dopo il matrimonio. Nel frattempo, calendario alla mano, a Vicenza c’è chi ha calcolato che i genitori di Jacobs l’abbiano concepito da quelle parti, quando suo padre naturale – un soldato americano – era in servizio alla caserma Ederle, mentre in Calabria c’è chi è pronto a offrirgli la cittadinanza onoraria perché calabrese di Rosarno è suo padre adottivo – Domenico Secolo – secondo marito di mamma Viviana e padre naturale di suo fratello minore. Tutti a tirarlo per la giacchetta, insomma, sperando di intercettare un granello della sua polvere di stelle.
Sfidando il ridicolo, all’improvviso tutta Italia ha fatto a gara per adottare quel campione dalla pelle nera, che ieri è stato il portacolori azzurro nella cerimonia di chiusura dei Giochi, dimenticando per un momento di essere un Paese frequentemente razzista, mediamente ostile all’immigrazione e, per quasi la metà, contrario allo ius soli, il diritto a ottenere la cittadinanza italiana per chiunque nasca qui, indipendentemente dalla nazionalità dei suoi genitori.
È a questo punto che un dubbio sorge spontaneo: le porte dell’Italia sono aperte soltanto agli stranieri di successo? Ai Jacobs, ai Jorginho (il regista della nazionale nato in Brasile, ma autorizzato a vestire la maglia azzurra grazie a un trisnonno di Asiago) o agli Emerson Palmieri (altro carioca naturalizzato italiano potendo vantare un avo calabrese)? Fra i 384 azzurri in gara alle Olimpiadi, addirittura, c’era un lanciatore del peso incapace di spiaccicare una sola parola in italiano: nelle interviste rispondeva in inglese semplicemente perché è nato e cresciuto in Sudafrica e solo lo scorso febbraio, a cinque mesi dai Giochi, è stato dichiarato eleggibile per la maglia azzurra dalla Federazione internazionale di atletica leggera. Però, il suo caso è diverso da quello di Luis Suarez, il centravanti uruguaiano che un’estate fa sperava di ottenere la cittadinanza italiana grazie a un esame farsa dall’Università di Perugia: dietro l’italianizzazione di Zane Weir da Durban non c’è alcuna truffa, è tutto regolare. Resta da capire, però, quale onore possa avere l’Italia dai successi ottenuti da un atleta reclutato all’ultimo momento, che probabilmente non ha mai nemmeno sentito risuonare l’Inno di Mameli (al contrario di Jacobs, che si è proclamato orgogliosamente italiano e, addirittura, ha respinto le avances dei giornalisti Usa che, a loro volta, volevano americanizzarlo quando hanno scoperto che è nato a El Paso).
Al netto del fatto che la pratica di intestarsi campioni nati al di fuori dei propri confini sia ormai diffusa a ogni latitudine e che – a suo modo – rappresenti comunque un passo in avanti sulla strada dell’integrazione, dell’inclusione e della multiculturalità, la vera questione è un’altra: perché siamo tanto accoglienti e larghi di manica con i campioni dello sport e tanto severi con chi scappa da una guerra o è nato qui, ma ha il torto imperdonabile di avere genitori non italiani? Non si può essere generosi a giorni alterni, o solo quando conviene.
Il che ovviamente non significa aprire indiscriminatamente le frontiere a chiunque si avvicini ai nostri confini, a piedi, in pullman o a bordo di un barcone. Ma significa essere lineari e coerenti, cancellando ogni ipocrisia. Perché è comprensibile che il presidente del Coni, Giovanni Malagò, per difendere gli interessi della sua bottega invochi la concessione della cittadinanza per meriti sportivi agli atleti nati fuori dai confini nazionali che possano dare lustro al medagliere azzurro (ultimo esempio: Abram Convjedo Ruano, il lottatore cubano che per noi ha conquistato una medaglia), ma lo stesso metro di giudizio andrebbe utilizzato per tutti gli studenti universitari, gli operatori sanitari (22 mila medici e 38 mila infermieri secondo l’ultimo censimento) e tutte le persone normali che ogni giorno contribuiscono alla vita del nostro Paese: lavorano, studiano, garantiscono servizi, pagano le tasse, si occupano dei nostri anziani, allevano figli (e si vaccinano contro il Covid) in Italia, anche se sono nati all’estero. Tenendoli fuori dalla porta – tollerati come un male necessario – centinaia di migliaia di immigrati resteranno sempre stranieri, o italiani a metà. Anche se vivono con noi e come noi.
Ecco, magari questo – il vivere come noi – potrebbe essere un bel requisito per ottenere il green pass alla cittadinanza: questo non significa che gli aspiranti «nuovi italiani» debbano rinnegare la propria cultura e le proprie tradizioni, o imparare a cucinare spaghetti o marubini, tanto meno a suonare il mandolino, ma che sappiano parlare l’italiano (come avviene già) e, soprattutto, che condividano i valori fondamentali della nostra convivenza civile (osservanza delle regole, libertà di culto, rispetto della donna, ecc…) questo sì, si potrebbe pretendere. A vantaggio nostro. Ma anche loro. Reciprocamente.
MARCO BENCIVENGA
Direttore “La Provincia di Cremona”