Editoriale

Da un vaffa… all’altro

Sarà una settimana politica cruciale. Nascerà il nuovo Governo a guida Giorgia Meloni, si conosceranno i nomi dei ministri, si chiariranno le varie posizioni e le nomine legate al nuovo portato fin qui dalla tornata elettorale sveleranno la loro consistenza. In attesa di eventi, però, quel che è successo nei giorni scorsi alla Camera e al Senato non può certo lasciare indifferenti. In effetti, di tutto ci si poteva aspettare dopo il 25 settembre, meno che di passare dal celebre «vaffa» grillino al sorprendente «vaffa» berlusconiano. Invece, proprio questo è successo giovedì in Senato, con tanto di video a documentare l’insulto del fondatore di Forza Italia all’indirizzo di Ignazio La Russa, da lì a un’ora destinato a diventare la seconda carica della Repubblica. Per carità: in un momento di tensione un «vaffa» liberatorio può sfuggire a tutti, ma la notizia non sta nella parolaccia, semmai nelle evidenti tensioni interne a una coalizione che solo tre settimane fa ha vinto le elezioni proprio grazie alla sua sbandierata unità, in contrapposizione alle divisioni degli avversari.

Era una compattezza solo di facciata? Diciamo di convenienza, per sfruttare al massimo i vantaggi della nuova legge elettorale, molto premiante per i partiti disposti a fare cartello rispetto alle forze politiche incapaci di trovare una sintesi e, per questo, condannate a correre in solitaria. Come previsto, unire le forze ha permesso a Fratelli d’Italia, Forza Italia, Lega e Noi Moderati di conquistare la gran parte dei collegi uninominali in palio e di garantirsi un’ampia maggioranza in Parlamento. Poco conta se i programmi proposti agli elettori non fossero esattamente allineati: dalla riforma del fisco alla politica internazionale, solo per citare i casi più eclatanti, le differenze fra le quattro gambe della coalizione sono sempre state evidenti. Ma durante la campagna elettorale erano finite in secondo piano, rispetto alla possibilità di conquistare una vittoria storica per una destra finora destinata alla marginalità.

Vero: dopo Tangentopoli e la scomparsa dei partiti tradizionali (Dc, Pci, Psi…) dal 1994 a oggi ci sono già stati ben quattro Governi a guida Berlusconi, mai però con un peso così significativo della destra. Soprattutto, mai con Fratelli d’Italia primo partito (e pure con largo margine) e la sua leader destinata a diventare presidente del Consiglio. Al di là delle differenze programmatiche, che Silvio Berlusconi e Matteo Salvini non fossero contentissimi di dover subire il primato di Giorgia Meloni era evidente. Forse, però, il Cavaliere e il Capitano in cuor loro pensavano di poter continuare a spadroneggiare, non credevano che la «junior partner» della coalizione potesse mangiarseli in un sol boccone. Questo invece hanno voluto milioni di italiani e, dopo l’apertura delle urne, i due leader – preso atto del risultato – si sono aggrappati all’unica speranza rimasta: che la «ragazzina terribile», posta di fronte alle enormi responsabilità del ruolo e del momento, fosse in qualche modo plasmabile, meno inflessibile rispetto alle posizioni da sempre assunte nei comizi di piazza o dai banchi dell’opposizione in Parlamento.

Grave errore: mai sottovalutare la determinazione di una donna. Neppure se è giovane e ha un fisico minuto, tanto che il giorno in cui fonda un nuovo partito il suo vice la solleva di peso per «mostrarla» alla platea in un’immagine rara, magari un po’ maschilista, ma di sicuro effetto. Il fatto è che Guido Crosetto se lo poteva permettere, non solo perché è un gigante di 200 centimetri per 130 chili di peso, ma anche perché Giorgia gli voleva (e gli vuole) tanto bene da stare al gioco. Quel «privilegio», però, spetta a lui e soltanto a lui, Guido Crosetto. Nessun altro deve illudersi di poterlo imitare, trattando la vincitrice delle elezioni come una «sorellina» (d’Italia) o la mascotte del futuro Governo. Giorgia Meloni è tosta, un osso duro non solo per gli avversari, ma anche per gli alleati, e la determinazione con cui si oppone alla nomina di un possibile ministro che non gradisce lo sta confermando al di là di ogni ragionevole dubbio. Perché Berlusconi si incaponisca tanto nel volere un ministero di peso per la sua fedelissima Licia Ronzulli (se si trattasse di un ministero qualsiasi probabilmente sarebbe accontentato) resta un mistero.

Probabilmente, è diventata una questione di principio («Volevamo solo mandare un segnale: nessuno può comandare a casa mia e dirmi quali ministri devo scegliere», ha dichiarato il leader di Forza Italia per spiegare il suo mancato appoggio alla candidatura di La Russa a presidente del Senato) ma rimane il dubbio che nel centrodestra non tutto fili liscio come dovrebbe. E l’elezione di un leghista divisivo come Lorenzo Fontana a presidente della Camera non lo fuga. Anzi, per certi versi lo rafforza, perché Giorgia Meloni per rispondere alla provocazione di Berlusconi ha dovuto dare soddisfazione a Salvini. «Ma così è passata dalla padella alla brace», commentano acidi a sinistra. In realtà, il vero banco di prova sulla compattezza dell’alleanza di centrodestra sarà la composizione del nuovo Governo: lì, in settimana, si misureranno davvero i rapporti di forza fra gli alleati e l’influenza dei vari leader.

In fondo, l’elezione dei presidenti di Camera e Senato è più simbolica che di sostanza (non a caso entrambi i neoeletti si sono affrettati a dichiarare che saranno «il presidente di tutti»). Con il Governo è diverso: lì ogni singolo nome fa la differenza. Proprio per questo prima del giuramento la lista dei ministri designati va sottoposta al Presidente della Repubblica, per la sua approvazione. E che non si tratti di una formalità lo ha dimostrato nel 2018 il caso Savona. Quattro anni fa il no di Sergio Mattarella a un possibile ministro delle Finanze dichiaratamente No Euro costrinse Giuseppe Conte a rimettere il mandato che aveva ricevuto dal Colle.

«Il professor Conte mi ha presentato le sue proposte per i decreti di nomina dei ministri che, come dispone la Costituzione, io devo firmare, assumendomene la responsabilità istituzionale: ho condiviso e accettato tutte le proposte, tranne quella del ministro dell’Economia perché la designazione del ministro dell’Economia costituisce sempre un messaggio immediato, di fiducia o di allarme, per gli operatori economici e finanziari», spiegò Mattarella, non nascondendo la sua preoccupazione per il fatto che la nomina di Savona potesse «provocare l’uscita dall’Italia dall’Euro» e di conseguenza «mettere a rischio i risparmi degli italiani». Nacque in quel contesto il mandato esplorativo al cremonese Carlo Cottarelli, cui bastarono meno di 48 ore per capire che sarebbe stato sufficiente togliere dalla lista il nome di Savona per dar vita al Governo gialloverde. Tre giorni più tardi Conte divenne presidente del Consiglio con l’europeista Giovanni Tria ministro dell’Economia e delle Finanze al posto di Savona.

Ora tocca a Giorgia Meloni proporre una lista di ministri «credibili e di alto livello», come ha promesso. Fra pochi giorni, forse fra poche ore, le sue scelte diventeranno di pubblico dominio. Nell’attesa, una certezza tranquillizza: se la futura presidente del Consiglio è tosta, al Quirinale c’è un Presidente della Repubblica… tostissimo, che – dovesse spuntare un nome inadeguato – lo boccerebbe, esattamente come ha fatto con Savona. Ora e sempre, lunga vita a Sergio Mattarella! Insieme a Liliana Segre rappresenta l’Italia più bella, un baluardo di libertà per chiunque ami la democrazia e abbia il senso delle istituzioni.

MARCO BENCIVENGA

Direttore “La Provincia di Cremona”

Altri articoli
Editoriale

Potrebbero interessarti anche