Editoriale

Due modi di fare domenica

Pensieri e riflessioni su due note pubblicate ieri, una qui e sul quotidiano di Cremona. Dentro il Domenicale, pubblicato qui, c’erano diversi temi – l’irriconoscenza, il Matteo fiorentino, il lusso esibito e il latino rispolverato -, alcuni urticanti, tutti semplicemente schietti. “Beatificare il Matteo fiorentino – ha scritto Aldo – significa dire a chi è venuto dopo di lui che non ha capito niente. E questo non lo accetto…”. Secondo Maria Giovanna “è giusto ridare al Matteo fiorentino piena dignità…”. Per i cinque che la domenica amano raccontarsi a vicenda (con seguito di commento) quel che hanno letto, “il latino finale, roba da esperti e professori, si poteva evitare”.

Nel fondo pubblicato sul quotidiano di Cremona e firmato dal suo direttore (Marco Bencivenga, un bresciano prestato alla vicina provincia), la teoria del noi contrapposta a quella del loro era di quelle che non poteva passare inosservata. Diceva infatti a me e a voi che se si vuole uscire dalle crisi è tempo di abbandonare la comoda finestra scelta per osservare senza intervenire e di andare invece in strada, tra la folla, per chiedere che quella spallata che allontani la pandemia e restituisca normalità e certezze di vita ai giorni che verranno.

Al saporoso domenicale di Luciano Costa, il fondo di Marco Bencivenga aggiunge concretezza e visione di buon futuro. Insieme, offrono occasioni di per aggiungere pensieri pensati ai tanti semplicemente occasionali. (BsA.)  

Io, noi o loro?

Lo spirito di squadra? Significa far prevalere il noi sull’io. Ovvero, la forza del gruppo sull’individualismo, il collettivo sul singolo, il bene comune sugli interessi di parte. Da Conte (Antonio) in giù, è un concetto che avrete sentito ripetere migliaia di volte dagli allenatori di calcio. O di pallavolo (uno per tutti: Julio Velasco) e pure a qualche formatore di team building (significa costruzione di un gruppo di lavoro). Sulla base di questa filosofia – tutti per uno, uno per tutti, come i celebri Moschettieri – dovrebbe essere motivo di sollievo sentire i leader politici che sostengono il Governo Draghi usare il termine «noi» in ogni pubblica dichiarazione.

Già, dovrebbe. Peccato che, in realtà, quella parolina di sole tre lettere sia utilizzata dai vari Tajani, Letta, Salvini e Calenda con una diversa accezione: non «noi del Governo Draghi», ma noi di Forza Italia, noi del Pd, noi della Lega, perfino noi di Azione. Laddove «noi» sottintende la distanza e la diversità dagli altri: che sono considerati avversari, anziché compagni di squadra o di cordata (alleati sarebbe troppo). Non a caso, in contrapposizione a «noi» in genere ci sono «loro». Noi facciamo, noi proponiamo, noi vogliamo… Loro pretendono, loro frenano, loro ostacolano… Che bella la lingua italiana! Ogni vocabolo definisce, distingue, differenzia. Precisa una sfumatura. O un’appartenenza.

Non c’è salotto tv in cui l’uso delle parole non sveli una verità nascosta in filigrana: i partiti che formano il Governo non hanno scelto Mario Draghi, non l’hanno voluto, ma l’hanno dovuto accettare, subire, in alcuni casi addirittura ingoiare. Perché nel perdurante stato di emergenza imposto dalla pandemia così ha voluto e disposto il presidente della Repubblica, a fronte della litigiosità, dei veti incrociati, dell’inconcludenza, delle smanie di protagonismo e dell’incapacità degli stessi partiti di risolvere i tanti e gravi problemi del Paese.

Il guaio è che, messi con le spalle al muro, i leader politici delle diverse formazioni hanno fatto buon viso a cattiva sorte, accettando di essere commissariati dall’ex governatore della Banca Centrale Europea diventato presidente del Consiglio, ma un minuto dopo avergli concesso la fiducia in Parlamento sono tornati a curare i propri interessi di bottega, anziché l’interesse generale degli italiani. Anche per questo, bisogna ammetterlo, finora Draghi ha fatto poco il Draghi, nel senso del comandante senza macchia e senza paura, che assume decisioni forti, fa scelte perentorie, non guarda in faccia nessuno e se ne assume la piena responsabilità. Sì, è vero, Draghi ha sostituito alcune figure chiave nella gestione della pandemia (a partire dal commissario straordinario per l’emergenza Domenico Arcuri, deposto a favore del generale degli alpini Francesco Paolo Figliuolo) ma da Mister Whatever It Takes ci si aspettava e ci si aspetta molto di più.

Invece, i Dpcm finora approvati sembrano ricalcare quelli scritti da Conte, le chiusure delle attività commerciali continuano a prevalere sui Ristori (unica differenza: adesso si chiamano Sostegni), la gestione della campagna vaccinale resta farraginosa, contraddittoria, esposta ai capricci delle case farmaceutiche e alle scelte autonomiste delle singole Regioni. Soprattutto, la campagna vaccinale resta lenta, troppo lenta, maledettamente lenta, perché nessun singolo – neppure una riserva della Repubblica chiamato come un eroe dei fumetti: SuperMario – può fare miracoli se attorno a sé non ha alleati leali e un esercito disposto a sacrificarsi con lui e per lui. Il problema è che, alle spalle di Draghi, una vera alternativa non c’è: se i partiti bruciassero la carta SuperMario sull’altare dei propri interessi, non ci sarebbe alcun Piano B da perseguire. Se la mostruosa macchina della burocrazia fagocitasse anche il campione del «costi quel che costi», il Paese non avrebbe scampo.

Se a vincere la partita fossero ancora una volta gli scaltri funzionari che affollano i palazzi del potere romani (ricordate la «manina» che modifica decreti già approvati dal Governo denunciata dai candidi cinquestelle?) ad essere commissariati non sarebbero più i partiti, ma l’Italia intera. Così, mentre negli ospedali si continua a morire e sempre più italiani faticano ad arrivare alla fine del mese, una domanda sorge spontanea: al netto della dialettica politica e della libertà di opinione di ognuno (nessuno invoca o pretende il cosiddetto «pensiero unico»), vale davvero la pena rischiare di vanificare l’effetto Draghi, solo per il gusto di far prevalere l’io al noi? I leader politici si saranno mai posti questa domanda? E, nel caso: si saranno dati la risposta giusta? O continueranno a preoccuparsi soltanto del proprio orticello? Dubitarne è lecito, esserne smentiti sarebbe stupendo.

E un segnale importante in questa direzione – un vero gesto alla SuperMario – Draghi lo ha lanciato in settimana, quando ha perentoriamente definito «un dittatore» Recep Tayyip Erdogan, il presidente della Turchia che spilla soldi all’Ue con il ricatto di aprire le porte d’Europa ai migranti. E non rispetta le donne. Non lo fa con le sue connazionali, forte delle medievali convinzioni dell’Islam radicale, e non lo ha fatto neppure con Ursula von der Leyen, la presidente della Commissione Europea che ha lasciato in piedi durante un incontro ufficiale, con le uniche due sedie disponibili riservate ai maschi. Sfidando ogni prudenza diplomatica, Draghi non ha avuto esitazioni nel chiamare il ducetto di Ankara con il suo vero nome: dittatore. E tanto è bastato a qualche commentatore per definirlo il nuovo leader di un’Europa troppo spesso timida e balbettante.

Davvero SuperMario può diventare la nuova Angela Merkel, da tutti considerata per anni la vera imperatrice d’Europa (peraltro, sempre con un occhio di riguardo per la sua amata Germania, che la cura del proprio orticello non è una prerogativa esclusiva degli italiani)? Alla vigilia della presentazione all’Ue del nuovo Recovery Plan italiano (abbondantemente riscritto rispetto all’era Conte, il due volte ex), la risposta può essere una sola: magari!

MARCO BENCIVENGA

Direttore “La Provincia di Cremona”

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