Editoriale

Fare i conti con i furbetti…

«In Italia l’Agenzia delle Entrate – Riscossione ha 1.100 miliardi di euro di crediti». Il dato non era segreto, ma è stato clamorosamente messo in primo piano da Mario Draghi in quello che passerà alla storia come il suo ultimo discorso ufficiale da Presidente del Consiglio, quello che gli è costato la «non fiducia» e che il 25 settembre riporterà alle urne gli italiani (meglio non scrivere «60 milioni di italiani» perché gli aventi diritto sono «solo» 47 milioni, ma soprattutto perché stavolta più che mai l’astensionismo sarà con ogni probabilità il primo partito).

Mille e 100 miliardi di euro sono una cifra mostruosa, «impressionante» l’ha definita lo stesso Draghi, ricordando che «equivale a oltre il 60% del Prodotto interno lordo nazionale». Per avere un metro di paragone, la difesa costa allo Stato l’1,5% del Pil (e in piena guerra russo-ucraina qualcuno era già pronto a far cadere il Governo per non salire al 2% in sei anni come richiesto dalla Nato) e il tanto discusso Reddito di Cittadinanza vale ancora di meno, lo 0,3%.

Perfino il plurimiliardario Pnrr che qualcuno ha definito «il nuovo Piano Marshall» è poco più di una mancia rispetto a quella montagna di soldi non riscossi, il che pone molti e gravi dubbi, alcuni facilmente identificabili. Eccoli:

1) come è stato possibile accumulare una simile quantità di crediti in tutti questi anni? 2) siamo governati da una massa di incapaci, compresi i funzionari strapagati che avrebbero dovuto garantire efficienza e puntualità nelle riscossioni, o la scelta di non pretendere le somme dovute da cittadini e imprese è sempre stata una forma indiretta di assistenzialismo/clientelismo? 3) siamo ufficialmente un popolo di evasori fiscali (come certifica l’ultimo rapporto Ue che ci assegna la maglia nera in Europa) o, magari, è il sistema nel suo complesso a non funzionare? 4) la crescita esponenziale dei crediti non riscossi dallo Stato è tutta colpa di furbi, furbetti e furbacchioni o di un meccanismo che non sa distinguere chi elude le tasse per scelta e chi invece vorrebbe rispettare le regole, ma non ce la fa proprio a pagare perché le imposte hanno ormai superato il limite della sostenibilità? 5) quanti di quei 1.100 miliardi sono riferibili a tributi non pagati e quanti, invece, a un meccanismo infernale che fra sanzioni e interessi finisce per moltiplicare a dismisura il debito iniziale fino a renderlo non più esigibile? 6) tutelare gli onesti è doveroso e guai se l’Italia concedesse l’ennesimo condono, ma è davvero sbagliato o sovversivo ragionare su serie ipotesi di rottamazione delle cartelle esattoriali non pagate? 7) meglio avere un grande credito senza alcuna possibilità di riscuoterlo o recuperare il recuperabile, a costo di concedere ampi sconti a chi è in debito? 8) se un’azienda ha un debito con lo Stato (primo pessimo pagatore della nazione), è meglio farla fallire o accompagnarla in un percorso di risanamento e graduale rientro nella legalità? 9) è davvero impossibile trovare un punto di equilibrio fra la tenuta dei conti pubblici e l’equità dei contributi individuali?

Sarebbe il caso di ragionarci sopra.

Perché se a definire il fisco «iniquo» non è stato un sindacalista di estrema sinistra o un imprenditore stufo di pagare le tasse, ma un Presidente del Consiglio – già presidente della Banca Centrale Europea – accusato dai detrattori di essere troppo amico della grande finanza e delle multinazionali, è chiaro che siamo ben oltre il paradosso: significa che la vera emergenza del Paese non è il caro energia e neppure la guerra in Ucraina, la siccità o la possibile recrudescenza della pandemia, ma è la riforma del fisco.

Ed è su questo – sulle possibili soluzioni da adottare per uscire da una situazione ormai inaccettabile – che sarebbe stato bello un confronto fra le diverse forze politiche presenti in Parlamento, anziché sui possibili vantaggi elettorali promessi dai sondaggi, di volta in volta favorevoli a questo o a quel partito. Allo stesso modo sarebbe bello che di questo – della riforma del fisco, che significa anche riforma del mercato del lavoro, con risultati potenzialmente più importanti perfino del cosiddetto «salario minimo» – si parlasse da qui a settembre, durante la campagna iniziata un minuto dopo che Draghi ha formalizzato le sue comprensibilissime e dignitosissime dimissioni. Sarebbe bello, ma chissà se i partiti lo faranno o se continueranno a preferire l’insulto reciproco e la ricerca del facile consenso.

MARCO BENCIVENGA

Direttore “La Provincia di Cremona”

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