Giustizia riformata. Forse…

Il Governo sostenuto dalla più ampia maggioranza parlamentare del Dopoguerra (dentro tutti, eccetto Fratelli d’Italia e qualche sigla minore) ha rischiato la scorsa settimana di implodere sulla riforma della giustizia. In tempi ordinari non sarebbe stato uno scandalo, considerate la delicatezza e la complessità del tema: ci sta che le diverse forze politiche abbiano idee diverse sul riordino di un settore così importante nell’ordinamento dello Stato e per i diritti individuali – in primis, la libertà – di ogni singolo cittadino. Il problema è che stavolta la contrapposizione era ideologica più che sugli ideali, di bandiera più che sui princìpi, di parte più che finalizzata al bene collettivo. Netta la divisione fra garantisti e giustizialisti, fra duri & puri e presunti amici dei corrotti e dei mafiosi, fuori dal Parlamento fra avvocati e magistrati (“al cento per cento contrari alla riforma”, secondo l’ex direttore del Corriere Paolo Mieli).

Non bastasse: sulla riforma che porterà il nome della ministra Cartabia vigila l’Unione Europea, perché la riduzione della durata dei processi è una delle clausole che subordinano la concessione all’Italia dei miliardi del Recovery Plan. Ce n’è abbastanza per shakerare un cocktail esplosivo, che le diplomazie parlamentari, il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio sono stati bravi a disinnescare nelle ultime ore, concordando un testo condiviso che fra domani e dopo dovrà essere approvato dal Parlamento.

Fatalmente, gran parte della discussione e delle divisioni si è focalizzata sul tema della prescrizione, ovvero il tempo massimo entro il quale un reato è contestabile e punibile. In linea teorica un principio di civiltà, più che condivisibile. Nella pratica, spesso, uno strumento alternativo di difesa, perché è più facile far scadere i termini di un’accusa che confutarla. Un vizio tutto italiano, frutto della combinazione di due fattori: da un lato l’inefficienza dei Tribunali, sommersi da carenze di organici e – di conseguenza – da un arretrato mostruoso (un milione e 613 mila le cause pendenti solo in ambito penale); dall’altro una precisa responsabilità di alcuni avvocati, quelli che grazie a mille cavilli ed espedienti ottengono rinvii delle udienze con il palese obiettivo di allungare i tempi dei processi, fino a superare la soglia massima consentita (che è proporzionale alla gravità del reato) ed eludere così gli effetti di una possibile condanna.

“La prescrizione è una patologia del sistema”, ha denunciato senza troppi giri di parole il vicepresidente del Consiglio Superiore della magistratura, David Ermini. Come uscirne? Il Governo Conte aveva risolto la questione prendendo il sacco in cima: di fatto, l’aveva abolita (salvo che per i reati più gravi). Da un eccesso all’altro: inaccettabile non porre un limite alla durata dei processi lasciando un imputato a bagno maria in un Paese in cui, in media, per concludere un procedimento penale servono più di quattro anni (secondo i dati del ministero della giustizia, 323 giorni per le indagini preliminari, 375 per la sentenza di primo grado e ben 759 giorni per l’appello), con punte di 6 anni nei distretti giudiziari di Roma, Napoli e Reggio Calabria. L’inefficienza del sistema è tale che a livello nazionale il 37% dei reati prescritti finisce fuori tempo massimo già nella fase delle indagini preliminari, cioè prima ancora che il processo sia iniziato.

Allora c’è un solo modo per uscirne: aumentare l’efficienza dei tribunali, un risultato che non può essere ottenuto ex legge, ma richiede la convergenza di una serie di misure ad hoc. A monte, la semplificazione delle norme, per renderle più chiare e meno interpretabili; a valle, lo snellimento delle pratiche di istruzione e notifica, la digitalizzazione degli uffici e delle procedure; in terza battuta l’ampliamento delle piante organiche della magistratura (peraltro oggi neppure coperte in misura adeguata in gran parte dei tribunali, sia a livello di giudici e di pubblici ministeri sia di funzionari e cancellieri).

Curiosamente, alcune di queste misure sono contenute nella riforma Cartabia (che prevede 20 mila assunzioni e l’istituzione dell’Ufficio del processo, con l’immissione in servizio di 16.500 assistenti dei magistrati) ma tutte le forze politiche si sono concentrate e scannate quasi esclusivamente sul tema-totem della prescrizione. Di più: alcuni partiti stanno già guardando oltre, raccogliendo firme per richiedere ben sei referendum su altrettante questioni connesse al pianeta giustizia, dalla separazione delle carriere dei magistrati (per impedire a giudici di diventare pm, o viceversa) alla limitazione della custodia cautelare (per riservare la carcerazione preventiva, in attesa del processo, solo ai reati più gravi), dalla responsabilità civile dei magistrati all’abrogazione dell’obbligo di iscriversi a una corrente per i giudici che intendono candidarsi al Csm.

Materie non semplicissime da comprendere per l’italiano-medio, che toccherebbe dunque al Parlamento normare, piuttosto che affidarsi alla volontà popolare. Non fosse così, per quale motivo avremmo delegato a rappresentarci deputati e senatori? Per completare il cerchio, si potrebbe considerare anche la necessità di destinare risorse adeguate alla realizzazione di nuove carceri (che le attuali sono in molti casi degradate e sovraffollate) e si potrebbe ragionare sulle misure alternative alla classica detenzione in un istituto di pena (braccialetto elettronico, messa alla prova, affidamento ai servizi sociali, ecc.).

Da fare e da discutere, insomma, ce n’è. Per ora accontentiamoci di aver compiuto il primo passo. E di aver scongiurato una nuova crisi di Governo in pieno agosto. Con la quarta ondata della pandemia ormai conclamata e il semestre bianco che precede l’elezione del Presidente della Repubblica già all’orizzonte, era un lusso che non ci potevamo proprio permettere.

MARCO BENCIVENGA

Direttore “La Provincia di Cremona”

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