Un medico in prima linea manda a dire che ci sono centinaia di ammalati seri, addirittura serissimi, che non possono essere curati perché il sistema è tutto impegnato e orientato a lottare contro il Covid. Capisco poco di ospedali e ancor meno di malattie, ma credo fortissimamente che il medico abbia ragione nel sostenere che il sistema salute vede il moscerino ma non la trave. Infatti, qualche giorno fa, Giulia ha chiesto ai carabinieri di intervenire essendo urgente per lei fare una mammografia. Ma anche Ernesto, in attesa di essere operato per tumore manifesto, non ne può più di stare col cellulare in mano in attesa di convocazione. Per non dire di Giovanni, che dovrebbe fare esami di controllo dopo essere stato operato per un tumore al colon, che neppure sa come e quando potrà accedere all’ospedale.
Tutto normale? Per niente. In più, quelle immagini televisive che mostrano file di ambulanze in attesa di scaricare il loro misero trasportato in qualche pronto soccorso; subito dopo quell’esperto che paventa la fine del mondo se non si procede a chiudere tutto; in aggiunta le cifre che ballano in su e in giù a seconda se ad annunciarle è Tizio anziché Caio oppure Sempronio; come resto, la paura, quella che ti prende appena senti odor di disinfestante (se chi mi sta accanto l’ha usato, pensi, è perché sta combattendo il virus e quindi è pericoloso), o al sentire qualsivoglia sirena, o al vedere quei due anziani che barcollando se ne vanno per i fatti loro, o anche solo al pensare che il virus, infiltrandosi sotto la porta di casa, sta per assalire gatti cani e persone che vi abitano. E’ una paura, e come tutte le paure, o la controlli o la subisci.
Intanto, qui e adesso, sembra solo di subirle queste maledette paure! “Tranne qualche sparuto citrullo – ha scritto Massimo Gramellini sorseggiando “il caffè” quotidiano -, viviamo tutti con la scimmia della paura addosso: che senso ha continuare ad alimentarla, cercando di continuo lo scenario degli ospedali intasati che già popola gli in cubi di milioni di anziani?” Questione di comunicazione, che se è buona ottiene lo scopo, che se però non è pensata diventa melassa e se è abusata-gridata-storpiata-immelanconita-spettacolarizzata e ingarbugliata diventa peggio di una pugnalata al cuore.
Sono ottimista, perciò dico che non è troppo tardi per rimediare agli errori e fare comunicazione politicamente e socialmente corretta. Il che significa “basta file per fare i tamponi o per accedere al Pronto Soccorso per sintomi minimi o addirittura senza sintomi”, perché tali comportamenti, sostiene il filosofo Cacciari, “producono più contagi che il non tenere la mascherina lungo strade deserte”. Quel che serve è “comunicare ai propri concittadini dati che facciano e abbiano senso (quanti sono nella percentuale dei contagiati gli asintomatici, i lievemente sintomatici, quelli che hanno davvero bisogno di ricovero e tra questi quanti sono i gravissimi) invece di sparare quotidianamente a uso e consumo di giornali e televisioni dei numeri in assoluto, aiuterebbe certamente ad affrontare l’ondata con maggiore consapevolezza e, quindi, con maggiore efficacia”.
Ieri l’altro un noto professionista della comunicazione urlata, un vero e proprio “ortottero”, schierandosi a favore dei ristoratori che dispongono anche di albergo (in particolare di uno che a Roma, per aggirare il divieto di dar da mangiare dopo le diciotto, ha inventato la formula alloggio più cena pagando solo l’alloggio), ha gridato “noi non chiudiamo, duri a morire…”. Essendo un “ortottero” finiva per impressionare. Niente di più.