Nel mondo ideale un’azienda crea un determinato prodotto, ne calcola il valore valutando il costo delle materie prime e la fatica della lavorazione, e poi lo propone al mercato garantendosi un piccolo o grande margine di profitto. Tutto logico, lineare, codificato. Forse sì, o forse no. Soprattutto se il soggetto del contendere è un prodotto come il latte, alimento indispensabile alla crescita e allo sviluppo di qualunque individuo, il cui prezzo alla stalla, sempre ballerino e mai in linea con l’equilibrio tra il dare e l’avere, è di quelli che fanno rabbrividire i produttori. Il problema è che non viviamo in un mondo ideale, ma – troppo spesso – ci ritroviamo a fare i conti con un mondo che gira al contrario, in cui la normalità diventa eccezione. E l’eccezione normalità.
Qualche esempio? Siamo talmente abituati all’inefficienza e alla scortesia che quando qualcuno ci tratta con gentilezza, disponibilità e solerzia ne restiamo stupiti. Siamo talmente rassegnati alla faciloneria e alle risse verbali che abbiamo un sussulto quando ascoltiamo una persona capace di argomentare, approfondire e ragionare senza pregiudizi o preconcetti. Siamo talmente usi a guardare la realtà con occhi deformati che se una ragazza viene violentata per strada mentre torna a casa, non puntiamo il dito contro chi l’ha stuprata, ma ci chiediamo se, magari, non se la sia andata a cercare indossando una camicia scollata o una mini troppo corta.
Il mondo al contrario è talmente diffuso che – se si torna al punto di partenza di questo ragionamento – oggi non è più chi crea un prodotto a stabilirne il prezzo. Ma chi lo vende. Attenzione: chi lo vende, non chi lo acquista. E la differenza è sostanziale, ancorché sottile. Perché la legge del mercato è un principio sacrosanto: ogni cosa vale (dovrebbe valere) in proporzione ai bisogni e ai gusti di chi lo acquista.
Se mi trovo in mezzo al deserto posso pagare a qualsiasi prezzo una borraccia d’acqua fresca (che ha un valore reale quasi irrisorio) così come nei primi mesi della pandemia il costo delle mascherine, allora introvabili, era schizzato alle stelle, mentre ora che le protezioni anti-Covid sono ampiamente disponibili la loro quotazione è tornata accettabile (in questo cosa specifico si potrebbero scomodare i principi dell’etica, si potrebbe discutere cosa sia giusto e cosa no, ma il mercato – si sa – non bada a queste quisquilie. Restiamo dunque concentrati sui dati oggettivi).
Il meccanismo del «giusto prezzo» vale soprattutto in tempi ordinari, al netto delle emergenze: se si desidera l’ultimo modello di un telefonino, proprio quel vestito firmato o quella borsa di marca, ci sta che li si debba pagare di più rispetto al loro valore effettivo, perché a comandare è la famosa legge della domanda e dell’offerta. Più una cosa è desiderata ed esclusiva, più costa.
Il problema sorge e manda in tilt il sistema quando fra il produttore e il consumatore si inserisce un terzo soggetto – potremmo addirittura chiamarlo il terzo incomodo – che non si limita a fare da tramite fra le parti, ma distorce le dinamiche del mercato e finisce per imporre le sue logiche e, soprattutto, i suoi prezzi, a prescindere.
Gli esempi potrebbero essere infiniti, ma alla ribalta in questi giorni c’è soprattutto un prodotto: il latte, orgoglio – fiore all’occhiello, delizia, ma anche croce – del nostro territorio, da sempre basato sul settore primario.
La protesta a gran voce degli allevatori – schierati venerdì davanti a CremonaFiere con i loro trattori e per una volta sostenuti da tutte le forze politiche e le organizzazioni di categoria – ha sollevato il velo su una situazione diventata paradossale: «Ormai non copriamo neppure i costi di produzione», hanno denunciato gli allevatori, da tempo condannati ad accettare margini di remunerazione ridottissimi e ora (al pari di molti altri imprenditori e di tante famiglie) costretti a fare i conti con l’impennata dei prezzi di energia elettrica, polizze assicurative e materie prime, dai foraggi ai farmaci, passando per il concime.
Sul banco degli imputati c’è soprattutto la Grande Distribuzione Organizzata, superpotenza che, governando la fetta più consistente del mercato, non solo riconosce ai produttori un valore troppo basso, inferiore ai costi vivi, ma in queste settimane è arrivata addirittura a disattendere il protocollo nazionale d’intesa che aveva liberamente sottoscritto al Ministero soltanto tre mesi fa. L’intesa avrebbe dovuto garantire ai produttori 41 centesimi di euro per ogni litro di latte alla stalla. Finora, però, quell’accordo non è stato rispettato, tanto che gli allevatori sono pronti ad appellarsi al decreto emanato dall’Unione Europea e condiviso dal Governo Draghi che definisce «pratica sleale» la remunerazione sotto costo di un qualsiasi prodotto. Il problema, nel caso del latte, è che un prezzo minimo non è stato fissato. Così, nel vuoto normativo vale la legge del più forte: la Gdo. Che ai produttori offre meno del concordato: prendere o lasciare. Chi ci sta, ci sta; chi non ci sta, si arrangi.
«Temo che fra qualche mese vedremo molti buchi sugli scaffali dei supermercati», ha profetizzato nel corso del presidio svoltosi a Cremona venerdì Elisabetta Quaini (vicepresidente dell’Associazione Libera e presidente di Frisona Italia (l’associazione nazionale indipendente allevatori). La profezia è allarmante. Ma la situazione è perfino più ingarbugliata e complessa, perché al danno (sia per gli allevatori sia per i consumatori) potrebbe presto aggiungersi anche la beffa: se i produttori nostrani decidessero di non conferire più il latte sottocosto all’industria della trasformazione, questa potrebbe andare ad acquistarlo all’estero, magari guardando a Est, dove i costi sono inferiori. Ma sono inferiori anche i controlli e la qualità. A quel punto ai produttori italiani non resterebbe che chiudere le stalle e, nel caso, sarebbe una clamorosa sconfitta per il tanto decantato Made in Italy: a farsi autogol sarebbe l’intero sistema Paese.
Unica, disperata, alternativa per i nostri produttori: vendere il buon latte italiano all’estero, stavolta in direzione dei Paesi più ricchi. Ogni allevatore per sé e chissà a quale prezzo, non esistendo accordi collettivi o di filiera. In questo caso si assisterebbe al più incredibile dei paradossi: mentre i consumatori italiani, pur potendo contare sui migliori produttori, troverebbero sugli scaffali dei supermercati latte straniero di bassa qualità, in Francia o in Germania si farebbero gran scorpacciate del nostro ottimo latte, pagandolo a prezzo di saldo. Se non è un mondo che gira al contrario questo…
MARCO BENCIVENGA
Direttore “La Provincia di Cremona”