Editoriale

Italia ammalata, ma i politici litigano…

Secondo molti osservatori, il livello di civiltà di un popolo si misura visitando le sue carceri. Per altri, la salute di una Nazione si capisce dal grado di manutenzione delle strade: se si moltiplicano le buche, manca l’asfalto o addirittura iniziano a crollare i ponti, c’è qualcosa che non va. Sul piano economico fanno la differenza l’evasione fiscale, il debito pubblico e la sostenibilità a medio e lungo termine: il primo fattore assegna all’Italia la maglia nera in Europa; il secondo ne fa il sesto peggior Paese al mondo in rapporto al Pil; il terzo proprio l’altro ieri è stato ribassato da Moody’s, la più importante agenzia di rating internazionale: da «stabile» a «negativo». Ce n’è abbastanza per guardare con grande preoccupazione al futuro, senza dimenticare il contesto bellico internazionale e un altro dato inquietante che ci riguarda da vicino: secondo le Nazioni Unite l’Italia è al quart’ultimo posto al mondo nella classifica della natalità (solo 7 nuovi nati ogni mille abitanti, contro i 44 del Niger, i 41 della Somalia e i 40 del Ciad; peggio di noi sul pianeta fanno soltanto Grecia, Corea del Sud e Porto Rico).

A questi inquietanti indicatori si può aggiungere un ottavo termometro: l’efficienza del sistema sanitario. «Qui siamo messi bene!», verrebbe da dire d’istinto (soprattutto se il «qui» si riferisce al Nord, da Roma in giù la situazione peggiora notevolmente). In effetti, in ambito sanitario le classifiche internazionali ci vedono brillare: al netto della pandemia, che ha colpito l’Italia per prima e – inevitabilmente – l’ha colta impreparata rispetto al resto dell’Europa e dell’Occidente, il Sistema Sanitario Nazionale proietta l’Italia nell’élite mondiale. Anche se non siamo il Paese che investe più risorse pro capite in sanità, secondo l’Ocse il numero dei medici per abitante in Italia è superiore alla media europea (4 dottori ogni mille residenti contro 3,6), ma soprattutto abbiamo uno dei più bassi indici di mortalità prevenibile e trattabile. Significa che ogni anno in Italia muoiono «solo» 110 pazienti (ogni 100 mila abitanti) che potevano essere salvati con una prevenzione più efficace (contro una media europea di 160) e ne perdiamo «solo» 67 (contro i 93 dell’Europa) a causa di cure non adeguate. Insomma, i nostri medici sono bravi sia nella diagnosi sia nella cura. Sempre secondo l’Ocse, in Europa solo Cipro vanta numeri migliori nella sanità e l’Italia spicca in particolare per due dati: il basso numero di ricoveri per malattie croniche (tipo asma e diabete) e l’alta percentuale di sopravvivenza ai tumori.

Tutto bene, dunque? Non proprio. Perché la realtà è in costante evoluzione e fra tante luci ci sono anche molte ombre. Rispetto al resto d’Europa, per esempio, in Italia si sta innalzando sempre più il costo delle prestazioni a carico del paziente (in media i nostri ticket costano l’8% per cento in più della media Ue), si sta progressivamente abbassando il numero dei posti letto disponibili in ospedale e destano preoccupazione gli ostacoli alla formazione e all’assunzione di nuovi dottori. «Più della metà dei medici italiani in attività ha un’età pari o superiore a 55 anni, la percentuale più elevata dell’Ue», sottolineava nel 2019 il rapporto Ocse sulla sanità europea. E siccome niente avviene per caso, suona tragicamente profetico l’allarme che quel rapporto lanciava e che nessuno ha ascoltato sulla capacità del sistema sanitario italiano di far fronte a possibili «crisi improvvise».

Per esempio, cosa sia successo con la pandemia è noto a tutti. Ma il problema dei problemi è che la sanità italiana fatica a rialzarsi anche ora che il Covid-19 è sotto controllo grazie alla conoscenza della malattia sviluppata dai medici e – ancor più – grazie alle vaccinazioni di massa che non hanno azzerato i contagi, ma ne hanno drasticamente ridotto le conseguenze. Emblematico, per dimostrare gli affanni post pandemia del sistema sanitario nazionale, è scoprire che qui e là per il bel Paese, la guardia medica non è in grado di fare la guardia. Vale a dire che lascerà intere province senza il servizio di «continuità assistenziale» a causa dell’assoluta mancanza di medici disponibili. In pratica, non ci sarà la Guardia Medica, quella che nei giorni festivi si sostituisce ai medici di famiglia, tanto che «in caso di bisogno» le varie Ats suggeriscono di rivolgersi al Pronto Soccorso degli ospedali. Peccato però che i Pronto Soccorso siano già in overbooking, cioè affollati e senza posti disponibili. Con tutta probabilità finirà che un paziente in codice verde o in codice giallo (quindi con una patologia fastidiosa, lieve o non grave, ma non in pericolo di vita) oggi più che mai dovrà trascorrere sei, otto o addirittura dieci ore in sala di attesa prima di poter essere visitato. Non per colpa dei medici, degli infermieri o degli ospedali, è ovvio, ma di un sistema palesemente inadeguato. E succede qui, nell’Italia che funziona, nella Lombardia che ha sempre fatto della sanità efficiente il suo fiore all’occhiello.

Tutta colpa dei continui tagli alle risorse destinate alla sanità pubblica, dell’occhiolino troppo spesso strizzato alla sanità privata (che garantisce ottimi servizi ordinari, ma non si occupa della Medicina d’urgenza) ma colpa anche di un sistema universitario a numero chiuso che nel corso degli anni ha letteralmente «respinto» centinaia di migliaia di aspiranti medici e infermieri. Troppi concorsi super affollati (migliaia di candidati in lizza per poche decine di posti disponibili) non solo hanno frustrato i sogni di intere generazioni, ma hanno inevitabilmente congelato il turn over in corsia e negli ambulatori. Risultato: sempre più medici senior si dimettono perché non ce la fanno più a sostenere turni infiniti e ritmi di lavoro infernali, ma anche – non va nascosto – perché rispetto allo stipendio fisso guadagnano molto di più se si fanno pagare a giornata dagli ospedali costretti a tamponare i turni scoperti con servizi a chiamata. Cardiologi, radiologi e anestesisti, in particolare, sono quasi introvabili. Risultato: le aziende ospedaliere spendono molto di più (anche mille euro a notte per un gettonista!) per un servizio peggiore e sono sempre in affannosa rincorsa.

Qualcosa di simile capita ai medici di base, che rispetto ai colleghi ospedalieri guadagnano qualcosa in più, ma sono costretti a trovarsi e a pagarsi un sostituto se vogliono andare in ferie. Ma siccome i sostituti non ci sono, come unica alternativa devono chiudere l’ambulatorio e suggerire ai propri pazienti di rivolgersi alla Guardia Medica. Che a sua volta è chiusa per assenza di personale. E dirotta i malati sull’ospedale. Insomma, oggi (e la prossima settimana, in occasione del ponte di Ferragosto difficilmente andrà meglio) è vietato ammalarsi. In caso di ascessi improvvisi, coliche renali o malori causati dal caldo torrido ci ritroveremo tutti al Pronto Soccorso sperando nella Provvidenza. Come uscire da questo vicolo cieco? Innanzitutto coinvolgendo i diretti interessati, chiedendo a loro – i medici – come trovare il giusto punto di equilibrio fra regole, necessità e disponibilità finanziare, perché nessuno meglio di loro sa di cosa hanno bisogno i reparti, il sistema e i pazienti. Sui politici, invece, meglio non far conto: dopo aver fatto cadere il Governo, sono troppo impegnati a spartirsi i seggi elettorali. Alla sanità costretta ad alzare bandiera bianca per carenza di fondi e di personale penseranno dopo il 25 settembre. Forse.

MARCO BENCIVENGA

Direttore “La Provincia di Cremona”

 

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