La lezione del campionato europeo

Ripiegate le bandiere, spenti i fuochi d’artificio e terminati i caroselli festosi di milioni di tifosi incuranti del Covid, a una settimana di distanza cosa resta dello storico trionfo della nazionale italiana a Wembley? Molto. La risposta giusta è molto. A ogni livello. Innanzitutto, grazie all’entusiasmante impresa compiuta dai calciatori azzurri è cambiata l’immagine del Paese agli occhi dell’Europa e del mondo: tanto eravamo il popolo dei furbi, degli indisciplinati e degli improvvisatori prima, tanto siamo considerati un modello di programmazione, creatività e unità di intenti adesso. D’incantesimo, il Made in Italy è tornato a essere un sigillo di qualità, un brand di successo. Ma la percezione di cosa e come siamo non è cambiata soltanto agli occhi degli stranieri: grazie alla straordinaria popolarità del calcio, la vittoria ottenuta a spese della presuntuosa Inghilterra (ma anche delle altre superpotenze europee: la Spagna, la Germania, la Francia…) ha cambiato il sentimento dell’intero Paese. Se un marziano ci guardasse da lontano, probabilmente gli sembreremmo tutti matti, a dare tanta importanza a ventidue giocatori in mutande che inseguono un pallone su un rettangolo verde, ma la realtà è proprio questa: grazie alle magie dei nostri calciatori (tutti, nessuno escluso) gli italiani hanno riscoperto l’orgoglio nazionale.

E, ancor più importante, sono tornati ad aver fiducia nel futuro, nelle proprie capacità, nella forza di un popolo che oltre alle storiche arretratezze, nell’ultimo anno e mezzo era stato martoriato e spaventato dalla pandemia. Quel popolo ha sofferto, ha pianto, per un po’ ha dovuto rinunciare a tutto, ma non si è mai arreso. Perché sa che non può piovere sempre. E che dopo un temporale – anche il più devastante – torna sempre a splendere il sole. Ad accendere la scintilla, otto giorni fa, sono stati proprio quegli uomini in mutande. Basti dire che secondo le stime dei più importanti economisti, il trionfo degli Azzurri, da solo, può mettere le ali al Pil, il prodotto interno nazionale, facendolo lievitare grazie al boom delle esportazioni, alla ripartenza del turismo e a una parallela espansione dei consumi interni.

«Non c’è dubbio che grazie al successo azzurro di Wembley un’ondata di gioia abbia attraversato il Paese, accompagnata da un’ondata di simpatia per l’Italia e la sua immagine nel resto del mondo», ha commentato un fine analista come Pasquale Lucio Scandizzo. Da qui la convinzione, anche di sobri osservatori finanziari, che l’efficacia del modello-Italia e la maggior fiducia nel futuro da parte degli italiani possano mettere il turbo al sistema paese, diventare il propellente dell’economia «verso traguardi di crescita mai raggiunti nel passato recente, capovolgendo gli effetti depressivi della pandemia». Ce ne sarebbe abbastanza per erigere un monumento agli eroi di Wembley. Ma ancora non basta. Più di tutto l’impresa calcistica di otto giorni fa ci lascia in eredità una straordinaria lezione, la seconda di questa magica estate italiana: la nuova morale è l’importanza della leadership per raggiungere determinati traguardi. Un valore riconosciuto all’estero, ma troppo spesso trascurato in Italia, sia a livello pubblico che in molte aziende.

Scegliere una figura di riferimento, sposare la sua vision, dargli fiducia e metterla nelle condizioni giuste per lavorare è il modo più corretto per iniziare un viaggio con l’obiettivo realistico di arrivare alla meta. La Federcalcio lo ha fatto scegliendo Roberto Mancini e credendo con assoluta convinzione nel suo progetto. Non solo lo ha pagato il giusto, ma al tecnico di Jesi il datore di lavoro ha rinnovato il contratto già prima dei campionati europei, ha consentito di scegliere i collaboratori giusti e ha permesso di fissare le regole del gioco. Perché gli intelligenti sanno che nessuno vince da solo e che senza regole non si va lontano. Ecco allora spuntare attorno a Mancini figure fondamentali come Gianluca Vialli, Lele Oriali, Daniele De Rossi, Chicco Evani, Fausto Salsano e Attilio Lombardo, una squadra nella squadra, fatta di condivisione, competenze e grandissima esperienza. Ed ecco un giocatore come il pur talentuoso Moise Keane escluso dalla spedizione azzurra perché incapace di integrarsi con il resto del gruppo, rispettandone le regole e i valori. Mancini era tanto convinto del fatto che una sola mela marcia potesse influenzare negativamente le altre con i suoi comportamenti, da rinunciare a un potenziale protagonista pur sapendo di non avere nel suo ruolo un campione all’altezza della concorrenza (vale per Keane come per l’ex figlioccio Mario Balotelli). Piuttosto di mettere a rischio i propri princìpi e la coesione del gruppo, Mancini è arrivato a modificare gli schemi di gioco dell’intera squadra e a convocare in nazionale un debuttante assoluto come Giacomo Raspadori.

Ecco il segreto del successo: leadership forte, vision, condivisione di programmi e obiettivi, fiducia, regole chiare. Così l’Italia del calcio è tornata regina d’Europa. Ma la regola vale anche fuori dal rettangolo verde. Volendo, basterebbe cambiare il nome di Roberto Mancini con quello di… Mario Draghi, per esempio, e il ragionamento non farebbe una grinza. Come dicono gli academici della Crusca, calzerebbe a pennello. Il dubbio, in politica come in ogni altro ambito, è se in Italia ci siano abbastanza Mancini e Gravina (il presidente federale), «pittori» illuminati, capaci di tenere in mano quel prezioso pennello. La Federcalcio ha dimostrato di saperlo fare e ora ne raccoglie i frutti. Diventasse davvero un modello, sarebbe il caso di tornare a sventolare bandiere, sparare fuochi d’artificio e fare caroselli per le strade. Covid permettendo, naturalmente.

MARCO BENCIVENGA

Direttore “La Provincia di Cremona”

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