Più che un normale confronto di idee e di programmi, sulla scena politica nazionale sembra in corso da alcuni giorni un’immensa partita a scacchi. Una di quelle più complicate, con la mobilitazione di tutti i pezzi disponibili: i pedoni che prendono posizione con i loro piccoli ma implacabili passi avanti, gli alfieri che attaccano in diagonale, i cavalli che scalpitano nel loro incedere irregolare, la regina che si muove ovunque – minacciosa, ma senza prestare il fianco agli avversari -, una torre che semina il panico in verticale e l’altra che protegge il re con un arrocco orizzontale. Come ogni buon giocatore sa, tutto è lecito finché il pezzo più pregiato non finisce sotto scacco. E la sua corona inizia a vacillare. Ed è esattamente ciò che sta succedendo a Giuseppe Conte, il presidente del Consiglio da tempo nel mirino degli ex alleati e ora esposto anche al fuoco amico di chi, in teoria, dovrebbe sostenerlo.
Davvero singolare il destino del premier senza tessera di partito: chiamato a Palazzo Chigi nel giugno 2018 come «avvocato del popolo», ma soprattutto come ago della bilancia e garante del contratto siglato da Lega e M5S, nel settembre 2019 Giuseppe Conte ha cambiato colore al suo governo, sostituendo al verde leghista il rosso sbiadito del Pd. E siccome non bastava gli ha aggiunto qualche pennellata di rosa fucsia (Italia Viva), di rosso fuoco (Leu) e di blu navy (Italiani all’estero). È diventato così il premier di tutti e di nessuno, una condizione palese soprattutto durante la prima ondata della pandemia, quando più volte ha dato l’impressione di essere stato lasciato solo, con il cerino in mano, pronto a diventare il più comodo dei capri espiatori, se le cose fossero andate male.
Invece, con il suo fare fermo ma rassicurante, la scorsa primavera Conte è riuscito a far accettare a 60 milioni di italiani una misura mai vista, due mesi di lockdown, e, un passo alla volta, non solo ha portato l’Italia fuori dall’emergenza, ma ha pure conquistato una discreta credibilità sulla scena internazionale. Il problema è che per molti il successo è la più imperdonabile delle colpe. Così, l’ex Signor Nessuno è stato prima accusato di volersi mettere in proprio – addirittura intestandosi un nuovo partito -, poi di «allargarsi» troppo, abusando dei Dpcm (a livello istituzionale, effettivamente, uno strumento da utilizzare solo in caso di emergenza, come i martelletti rompi vetro e gli estintori antincendio), per arrivare di recente al peccato capitale, già fatale a Matteo Salvini: invocare i pieni poteri.
A questo punto è scattata la contraerea. Matteo Renzi, al solito, non vedeva l’ora di picconare il rivale di turno; l’ala ribelle del Movimento 5 Stelle (che pure resta la forza politica più vicina al premier) ha iniziato a segare le gambe della sua poltrona, per protestare contro i troppi compromessi che la gestione di un governo di coalizione inevitabilmente comporta; il Partito Democratico – dimenticando che proprio lui, Conte, gli ha permesso di uscire dall’angolo in cui era finito dopo le ultime elezioni politiche – giorno dopo giorno è tornato a fare la voce grossa, con veti, condizioni e penultimatum assortiti. Così, un po’ alla volta «Giuseppi» è diventato scomodo, complice anche qualche suo errore strategico e di merito: dall’eccessivo ricorso ai decreti della presidenza del Consiglio al progressivo svuotamento del ruolo del Parlamento, dal mancato confronto con le opposizioni, le forze sociali e i corpi intermedi ad alcune scelte oggettivamente sbagliate (valga per tutte il caso della scuola, riaperta puntando sui banchi a rotelle e subito richiusa perché nessuno aveva pensato a riorganizzare i trasporti pubblici indispensabili per permettere agli studenti di arrivare in classe in orario e con un adeguato distanziamento anti-contagio).
Ora, uno alla volta, tutti i nodi stanno venendo al pettine e, sommandosi ad egoismi di partito e ambizioni individuali, Conte rischia di finire sotto scacco, proprio come il Re lasciato solo da torri, alfieri e cavalli. Una prospettiva tutt’altro che incoraggiante per un Paese ancora alle prese con la pandemia – per quanto da oggi quasi completamente «zona gialla» -, chiamato a decidere come spendere i miliardi del Recovery Fund e obbligato a presentare adeguate garanzie all’Europa che li concede (significa elaborare progetti credibili e indicare cronoprogrammi precisi per la loro realizzazione). Possibili vie d’uscita? C’è chi spera in un rimpasto di governo (ma quali riservisti di qualità siedono in panchina?), c’è chi invoca elezioni anticipate e c’è chi sostiene che il ritorno alle urne è un lusso che il Paese non si può permettere, anche se l’attuale Governo non rispecchia il reale sentire politico della maggioranza degli italiani.
Una soluzione ragionevole l’ha proposta in settimana il deputato cremonese Luciano Pizzetti, dem cresciuto alla scuola del vecchio Pci (una grande palestra di politica e di pensiero, al netto della più o meno condivisibile ideologia fondante): «Il Governo Conte, che pure ha gestito in modo sostanzialmente positivo il contrasto all’epidemia, non ha avuto una legittimazione popolare, ma è frutto di un’azione parlamentare, per quanto legittima», ha ammesso l’onorevole pd, con grande onestà intellettuale. Da qui l’appello ai colleghi che siedono in Parlamento: «Se crei un Governo minoritario nel Paese, una riflessione devi farla, anche perché questa situazione crea tensione e conflitto con le Regioni che, spesso amministrate da chi a Roma sta all’opposizione, sono essenziali per la gestione della sanità. Presto emergerà anche l’emergenza economica e, per fronteggiarla, serve una classe dirigente che si ponga il tema della ripresa e dello sviluppo, con il coinvolgimento di tutte le forze produttive e della massima rappresentanza dei diversi soggetti sociali. Altrimenti si rischiano tensioni e paradossi come quello del Mes, il fondo europeo che mette sul tavolo 36 miliardi di euro per potenziare il sistema sanitario ma che una parte del Governo non vuole per una questione ideologica, anche se il ministro della Salute ha indicato un fabbisogno di 60 miliardi e in cassa ne ha soltanto 9». Per evitare simili autogol, ha suggerito Pizzetti, ora nella gestione della pandemia vanno coinvolte tutte le forze politiche e sociali. «Non penso a un inciucio e nemmeno a un governo di unità nazionale, per il quale non ci sono le condizioni, ma a un’idea alta e a un percorso comune in Parlamento – ha precisato Pizzetti -. Lì vanno messe tutte le carte sul tavolo, dagli investimenti infrastrutturali alla semplificazione della burocrazia, dalla sanità alle riforme, modificando le leggi che hanno dimostrato di non funzionare. Solo così si può scongiurare il rischio di una reciproca delegittimazione e della perenne conflittualità che diventa una debolezza per l’intero Paese». Difficile non essere d’accordo. Ma…
MARCO BENCIVENGA
Direttore del quotidiano “La Provincia di Cremona”