Cari lettori, oggi vorrei condividere con voi una buona notizia. Leggendo l’ultimo report sul fisco ho avuto la conferma di essere uno dei 4 italiani su cento che pagano più tasse. Il che, almeno in teoria, dovrebbe significare che sono uno dei 4 italiani su cento più ricchi. Peccato che la teoria sia un conto, la realtà tutt’altra.
Ho uno stipendio superiore a quello di una commessa o di un operaio, sì. Ma non ho un tesoro nascosto alle Cayman, non vivo in una villa con piscina, non possiedo una casa per le vacanze in Costa Smeralda o a Madonna di Campiglio, non guido auto di lusso, non ho uno yacht e, per la verità, non possiedo neppure un gommone. Ciò nonostante, dichiarazioni dei redditi alla mano, rientro nella fascia di reddito più alta, nel 4,58% di contribuenti italiani che dichiarano entrate superiori ai 55 mila euro lordi all’anno e versano allo Stato oltre il 38% dell’Irpef complessiva. Pochi ma buoni, insomma.
Ancor più paradossale è la condizione degli italiani che hanno un reddito compreso fra i 35 mila e i 54.999 euro l’anno: secondo l’ultimo studio di Itinerari Previdenziali e Cida (Confederazione italiana dirigenti e alte professionalità), pur essendo solo cinque milioni, pari al 12,99% del totale, quei contribuenti versano il 59,95% delle imposte sulle persone fisiche incassate dallo Stato. Il che significa una cosa sola: anche la maggior parte di voi, cari lettori, rientra fra gli italiani che pagano più tasse.
Altro che i clienti dei ristoranti stellati, degli hotel a cinque stelle o dei locali alla moda come il Twiga o il Billionaire! Altro che i proprietari delle ottomila Ferrari, Lamborghini, Porsche e Maserati che vengono immatricolate ogni anno in Italia! I veri ricchi siamo noi. Gli altri, al massimo, sono usufruttuari di beni e servizi fatturati dalle società per cui lavorano o di cui sono titolari. Non è una novità, ma ogni nuovo report è uno schiaffo alla realtà (avrei voluto scrivere uno schiaffo alla povertà, ma non posso farlo, perché come senz’altro ricorderete la povertà è stata ufficialmente abolita nel 2018 da Luigi Di Maio…).
Il corto circuito è difficile da spiegare in un Paese che afferma la progressività del sistema fiscale fin dalla sua Costituzione (articolo 53: «L’imposta che i cittadini sono tenuti a versare è proporzionale all’aumentare della loro possibilità economica»).
La verità è che, con buona pace di ogni altra categoria, da sempre il fisco si accanisce sui lavoratori dipendenti. Le tasse sono una zavorra anche per le imprese, è vero, il cuneo fiscale in Italia è talmente elevato da far schizzare a livelli insostenibili il costo del lavoro, ma una società – a differenza di una persona fisica – ha almeno la possibilità di ridurre il debito nei confronti dello Stato: se investe nell’acquisto di immobili o macchinari può abbassare gli utili e, di conseguenza, pagare un po’ meno tasse. E tanto basta a rimettere in circolo il valore aggiunto ed evitare l’accumulo di ricchezza improduttiva. Ben venga la regola, dunque.
Al privato, però, neppure questa possibilità è concessa: tassato alla fonte, al massimo può scaricare le spese mediche, il mutuo sulla prima casa o il costo di un funerale. Che spenda tutti i soldi guadagnati o li nasconda nel materasso (per quanto possibile di questi tempi, fra caro bollette e inflazione) per lo Stato non fa differenza.
Come uscirne? In attesa della svolta sempre evocata e mai realizzata (pagare meno, pagare tutti), la soluzione più semplice sarebbe permettere a ogni contribuente di scaricare dal proprio imponibile una quota dei soldi che spende.
I titolari dei redditi più bassi, quelli che arrivano a malapena alla fine del mese, continuerebbero a pagare una cifra simbolica (i dieci milioni di italiani che dichiarano un reddito inferiore ai 7.500 euro lordi all’anno già oggi, messi tutti insieme, pagano solo lo 0,12% del totale delle imposte, come è giusto che sia) mentre i contribuenti più fortunati sarebbero incentivati a «far girare» l’economia.
Se applicata, questa semplice quanto rivoluzionaria possibilità indurrebbe ogni cittadino a pretendere lo scontrino fiscale per ogni singola spesa effettuata, innescando un meccanismo più efficace di qualsiasi battaglia o controllo contro evasione ed elusione: se avere la ricevuta diventasse conveniente anche per chi acquista, chi offre una prestazione o vende un bene farebbe decisamente più fatica a «dimenticarsi» di compilarla. Invece, in Italia siamo fermi al doppio prezzo: con ricevuta e senza ricevuta. Più alto nel primo caso, più basso nel secondo. Così, a pagare le tasse è sempre il cliente, mai chi incassa. Succede con l’idraulico, con il fabbro e con il gommista, ma non solo. Spesso capita anche con i liberi professionisti a parcella.
Al pediatra delle mie figlie, con ambulatorio sempre affollato, evidentemente dovevo essere l’unico a chiedere la ricevuta ad ogni visita medica, considerato che mi capitò di ritrovarmene due con il numero di serie consecutivo, a distanza di un mese l’una dall’altra. Un’anomalia tanto vistosa da insospettire l’addetto ai rimborsi della mia assicurazione, quasi che a presentare richieste di rimborso taroccate fossi io. Un rovesciamento di responsabilità simile a quello della titolare di un B&B alla quale, dopo aver trascorso una notte nella sua struttura, chiesi la ricevuta e… dapprima cercò il blocchetto in fondo a un armadio, poi lo ripulì della polvere che si era addensata sulla copertina e, quando le dissi di non affannarsi, perché se era un problema potevo pure farne a meno, mi rispose candidamente: «Nessun problema, signore: gliela faccio volentieri, così… mi alleno. Meglio essere preparati, nel caso dovessi farne un’altra…».
Un episodio limite? Può essere. Ma l’innalzamento della soglia del contante decisa dal Governo Meloni, sommata all’eliminazione del Pos per spese inferiori ai 60 euro, non aiuta né la lotta ai furbi né il contrasto al lavoro nero. Certo, i baristi avevano ragione a lamentarsi dei clienti che pretendevano di pagare un caffè con il bancomat, ma il rischio è di passare da un estremo all’altro. Di chiudere una finestra e lasciare aperto un portone. Ancor più, di penalizzare i soliti noti e, contemporaneamente, di permettere ad alcune grandi aziende di avere la produzione in Italia e la sede fiscale in Olanda (che fa parte dell’Unione Europea, ma in materia di tasse ha regole tutte sue) o addirittura di consentire ai giganti dell’e-commerce di vendere e consegnare i propri prodotti qui, nel nostro Paese, ma di fatturarne i profitti dove la pressione fiscale è più bassa. Una beffa legalizzata, proprio come ritrovarsi nello scaglione di chi paga più tasse, senza averne i benefici. Di chi saranno mai tutti quegli yacht, quelle ville e quelle Ferrari?
MARCO BENCIVENGA
Direttore “La Provincia di Cremona”