Il fuoco, la ruota, la scrittura, l’agricoltura, la rivoluzione industriale… La storia dell’Uomo è segnata da una serie di scoperte e di passaggi epocali e oggi a caratterizzare l’era in cui viviamo è un fattore mai così decisivo in passato: la comunicazione. Nella società moderna tutto ruota attorno alla conoscenza e allo scambio delle informazioni. Chi è connesso sa, partecipa, guadagna, si evolve (come si suol dire: sta al passo con i tempi); chi invece rifiuta le nuove tecnologie e i nuovi media perde terreno, arretra, finisce inesorabilmente ai margini, fino a diventare irrilevante.
Vale sul mercato, in economia, come nella vita reale, per ognuno di noi. Si può pure rifiutare la modernità, certo; si può continuare a fare i conti con carta e penna, anziché con il computer (a Cremona è famoso un imprenditore che prepara i suoi preventivi a mano, in Lire, per poi convertire il risultato finale, ma solo quello, in Euro…), si può vivere anche senza pc o smartphone, ma se si imbocca la strada del luddismo digitale un po’ alla volta si finisce in un vicolo cieco. «Ci scriva una mail, ci mandi una pec, ci dia il suo Iban, prenda il pin, vada sul nostro sito», ci sentiamo rispondere sempre più spesso al lavoro, in banca, al supermercato, perfino dagli uffici pubblici. Il problema è che la comunicazione digitale, sempre più istantanea e sempre meno personale, nasconde mille insidie. È lontana. Sfugge al nostro controllo. E qualche volta perfino al controllo di chi la produce.
Vogliamo parlare dello scambio di informazioni fra Stato e Regioni sull’andamento della pandemia che sulla base di un dato sbagliato nell’ultima settimana ha costretto la Lombardia alla zona rossa senza che ce ne fosse motivo (significa negozi chiusi, didattica a distanza, attività ridotte, con pesanti conseguenze sociali ed economiche a ogni livello)? Il rimpallo di responsabilità sul caso continuerà a lungo, alimenterà la guerra fra il centrodestra che governa a Milano e il centrosinistra che governa a Roma, contrapporrà sindaci e ministri, accentuerà le divisioni fra l’Italia dei cialtroni e quella che si autoproclama efficiente, salvo poi scivolare sulla buccia di banana del calcolo dell’Rt. Arriveranno anche le richieste di risarcimento: c’è da scommetterci. Ma tutto questo non risolverà il problema dei problemi: chi garantisce la correttezza dei dati sulla base dei quali si assumono decisioni fondamentali per la sopravvivenza di milioni di persone, imprese e attività economiche? Chi ne gestisce e veicola la diffusione? Chi ha il diritto di nascondere la verità, innocua o scomoda che sia?
Il dibattito è aperto da tempo, ma la pandemia lo ha reso di primaria attualità, perché ora più che mai le informazioni a disposizione di pochi impattano sulla vita di tutti. E perché oggi più che mai – complici rete e canali social – è diventato difficilissimo distinguere il vero dal falso, la sincerità dalle bugie, l’autenticità dalla simulazione, l’oggettività dalle fake news.
L’ipotesi che un parlamentare convinto che la xylella si curi con il sapone e che l’alimentazione vegana metta al riparo dal Covid possa diventare ministro dell’Agricoltura è vera o falsa? Una notizia o uno scherzo? Purtroppo, vale la prima ipotesi. Così come è drammaticamente vero che un ventiduenne neonazista di Savona, tale Andrea Cavalleri, incitava via social a uccidere donne, omosessuali ed ebrei e si dichiarava «pronto a morire combattendo» per «dare un senso vero alla vita». Secondo i pm che ne hanno ordinato l’arresto, il giovane suprematista progettava di replicare gli attentati di Utoya (in Norvegia, dove nel 2011 un folle uccise 77 innocenti) e di Christchurch (in Nuova Zelanda, 50 morti nel 2019): per fortuna è stato scoperto dalla polizia prima che compisse una strage e in settimana è stato portato in carcere con la pesante accusa di «associazione con finalità di terrorismo e propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale aggravata dal negazionismo».
Sembra il personaggio di un film dell’orrore e invece è un giovane in carne ed ossa, potenzialmente un compagno di studi dei nostri figli, che non vive in Siria o in Afghanistan, ma il Liguria, a 200 chilometri da qui. Poteva essere nostra figlia anche la bambina di Palermo che a solo 10 anni è stata trovata morta in bagno con la cintura di un accappatoio avvolta attorno alla gola e, all’altro capo, agganciata a un termosifone. La bambina avrebbe partecipato al «Black out challenge», un’assurda competizione subito diventata virale su Tik Tok: vince chi resiste più a lungo dopo essersi stretto una cintura attorno al collo. Purtroppo, a volte la realtà supera la fantasia. Tragicamente. Così, si arriva al paradosso dei paradossi: il vero sembra falso e il falso sembra vero.
Per questo, rappresenta un raggio di sole nell’oscurità la proposta lanciata da una parlamentare norvegese di candidare al Premio Nobel per la pace l’International Fact-Checking Network (Ifcn), una rete composta da decine di media e di organizzazioni attive a livello globale nella verifica dei fatti e delle notizie veicolate da siti, tv e canali social di tutto il mondo. «Viviamo in un’epoca in cui combattere le bugie è diventato fondamentale. Anche il nuovo presidente degli Stati Uniti Joe Biden ne ha parlato nel suo discorso di insediamento alla Casa Bianca», ha sottolineato l’onorevole Trine Skei Grande, ideatrice della proposta. «I fact checker hanno bisogno del nostro sostegno», ha subito aggiunto: da qui la candidatura al premio più prestigioso, il Nobel della Pace, che – per fare un raffronto – lo scorso anno fu assegnato al World Food program, il programma delle Nazioni Unite che combatte la fame nel mondo, quattro anni fa toccò alla campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari e alla sua prima edizione, nel 1901, fu assegnato a Jean Henri Dunant, il fondatore della Croce Rossa. Ora la priorità globale è verificare l’attendibilità dei contenuti diffusi dai mezzi di comunicazione. E anche questo è un inequivocabile segno dei tempi.
MARCO BENCIVENGA
Direttore del quotidiano “La Provincia di Cremona”