Il presidente uscente, la vice che ha deciso di sfidarlo, il volto nuovo dell’opposizione: il prossimo governatore della Regione Lombardia sarà uno fra Attilio Fontana, Letizia Moratti e Pierfrancesco Majorino. Le tre candidature sono diventate ufficiali in settimana e corrispondono a tre blocchi politici ben definiti: il centrodestra modello Meloni (Lega + Fratelli d’Italia + Forza Italia + Noi con l’Italia), il polo di centro targato Azione/Italia Viva e un centrosinistra mai così spostato a sinistra (Pd, +Europa, Verdi, Civici, Sinistra Italiana). E il M5S? In Lombardia raccoglie solo la metà dei consensi rispetto alla media nazionale (17% contro 33% nel 2018) e al momento non ha un proprio candidato. I più sospettano che convergerà su Majorino. Per scelta. O per cooptazione. In altre parole: o si alleerà formalmente con il centrosinistra o ne sarà fagocitato. Poco male: da solo il M5S non avrebbe alcuna chance di vittoria. Al massimo potrebbe raccogliere voti di bandiera, come Italexit o la stessa +Europa, se abbandonerà la coalizione di centrosinistra per manifesta incompatibilità.
Per il ruolo di governatore, dunque, sarà una sfida a tre. Il che, secondo molti osservatori, finirà per abbassare il quorum: il 35% dei consensi potrebbe bastare per entrare da vincitori a Palazzo Lombardia. Ci spera Fontana («Ho lavorato per cinque anni con grande impegno, non temo il verdetto delle urne», ha dichiarato giovedì a Casalmaggiore gonfiando il petto), ci spera Majorino (sfruttando le divisioni del campo avverso) e ci spera pure la Moratti (anche se ha scelto la strada più impervia per arrivare al successo: correre da sola).
Si fosse candidata con il centrodestra sarebbe stata sicuramente rieletta, non come Presidente, però: al massimo come vice; si fosse alleata con il centrosinistra avrebbe dovuto rinnegare il passato, ma avrebbe avuto ottime possibilità di far saltare il banco; così, potrà rubare un po’ di voti agli ex alleati e un altro po’ ai moderati di centrosinistra che temono la possibile alleanza del Pd con il M5S, ma dovrebbe mettere in campo tutta la propria potenza di fuoco per triplicare il 10% conquistato due mesi fa dal Terzo Polo nei collegi lombardi delle Politiche). In un simile scenario tutti possono vincere, ma nessuno può permettersi di perdere. Ancor meno di arrivare terzi.
Toccasse alla Moratti, la sua sfida rischierebbe di apparire una velleità personale, frutto di un eccesso di autostima. Toccasse al centrodestra sarebbe una debacle storica, dopo 28 anni di regno ininterrotto. Toccasse al centrosinistra, diventerebbe l’ennesimo autogol a fronte di un centrodestra per la prima volta spaccato e del gran rifiuto a una possibile alleanza con la Moratti. “Meglio perdere con un nostro candidato che perdere dopo aver imbarcato l’ex vice di Fontana”, hanno ragionato in molti (ma non tutti) nel Pd. Obiezione sensata: nessuno aspira a essere… cornuto e mazziato. Così, però, l’unico verbo ammesso è perdere: il centrosinistra rischia di mancare un’occasione irripetibile, anteponendo la propria «purezza» alla convenienza elettorale.
Sarà per questo che Fontana dichiara di non temere il verdetto delle urne? In fondo, cinque anni fa stravinse contro un altro candidato, che aveva frequentato più Mediaset che le Feste dell’Unità, come Giorgio Gori. E se il precedente può contribuire a spiegare il no alla Moratti, per il centrosinistra è comunque il ricordo di una battaglia persa. Con il capogruppo di Forza Italia in Consiglio Regionale, Gianluca Comuzzi, pronto a mettere il dito nella piaga: «Nella certezza di perdere le elezioni in Lombardia, con Majorino la sinistra ha scelto il candidato più sacrificabile», ha commentato, sostenendo che dell’europarlamentare dem, già assessore comunale a Milano, «nessuno ricorda un solo provvedimento a favore dei milanesi e dei lombardi».
Ancor più duro il deputato di Fratelli d’Italia Riccardo De Corato, fino a poche settimane fa assessore regionale alla Sicurezza nella Giunta Fontana: «Il centrosinistra non poteva fare scelta migliore per perdere le elezioni», ha dichiarato, sostenendo che «il compagno Majorino è sempre stato amico dei centri sociali, dei no-global, degli anarchici e degli occupanti abusivi». Che due avversari politici attacchino così duramente un rivale, arrivando a definirlo «un candidato invotabile al di fuori dei quartieri radical chic di Milano», non è elegante, ma in fondo fa parte del gioco, dimostra solo che la campagna elettorale è già iniziata.
Fa più impressione leggere le parole usate dall’ex senatore dem ed ex sindaco di Brescia, Paolo Corsini, per definire l’attuale momento del Partito Democratico: «Il problema del Pd non è l’ennesimo cambio di segretario, ma il partito stesso, la sua identità, la sua collocazione politica, il suo ruolo di rappresentanza sociale, il sistema di alleanze che intende promuovere, soprattutto il progetto da elaborare e sottoporre al Paese in un confronto interno non ancora decollato – ha scritto -. A lasciare sbigottiti è il fatto che, ancor prima di aprire un dibattito non più rinviabile, siano emerse 6 o 7 candidature alla segreteria in termini di autopromozione, alcune delle quali palesemente improbabili». Ma, al di là dei nomi, secondo Corsini il vero problema è «cosa è diventato il Pd, un partito incapace di selezionare una classe dirigente se non sulla base di criteri di appartenenza correntizia e di fedeltà al leader di turno (…), spesso ridotto a comitato elettorale per vertici che blindano se stessi in collegi sicuri, un ceto autoreferenziale che antepone a tutto la propria sopravvivenza, garantendosi, al limite, una prosecuzione di carriera presso istituti bancari, aziende di Stato e organismi internazionali».
Così, ha ammonito il senatore, «crolla la partecipazione, viene meno la militanza, si sguarnisce la presenza sul territorio, si offusca la visione e sono sempre meno le figure capaci di testimonianza morale e di impegno generoso e disinteressato». Fuoco amico. Fuoco che scotta. Anche se, bontà sua, Corsini ha riconosciuto che «tuttavia il Pd resta la seconda forza politica del Paese e conta milioni di voti, forte di amministratori capaci e di indubbie risorse umane a livello di base», tanto da costituire un importante riferimento «per mondi vitali che praticano esperienze virtuose». Da qui l’appello al partito a «ricostruire il suo popolo aggregando forze sociali ed esperienze associative» per «ricomporre uno schieramento alternativo alla destra».
Sarà possibile realizzare tutto questo da qui alle Regionali? Pare improbabile. Ma esserne consapevoli e iniziare a parlarne, almeno per il Pd lombardo, sarebbe un buon punto di ripartenza. «La mia linea politica mette al centro la persona, è alternativa al modello lombardo basato sulla privatizzazione selvaggia voluta da Fontana e Moratti che ha mortificato il servizio sanitario. Se essere massimalista significa rappresentare le persone più fragili, incrementare i servizi sociali in favore delle persone con disabilità, allora lo sono», ha rivendicato Majorino nelle interviste post investitura. La rivendicazione di una storia, più che una dichiarazione di guerra. D’altra parte, il suo primo gesto politico è stato un gesto di pace: telefonare ai competitor. «Ho chiamato Fontana e Moratti e sono state conversazioni assolutamente civili – ha rivelato Majorino -. Mi auguro che la campagna elettorale si svolga nel segno del rispetto e del confronto delle idee. Detto questo, vinciamo noi». Sarà davvero così? Non servirà molto tempo per scoprirlo. Tempo di scartare i regali di Natale e sarà già tempo di riaprire le urne.
MARCO BENCIVENGA
Direttore “La Provincia di Cremona”