Impossibile immaginare un gesto più innaturale di una madre che, per salvare la propria figlia, la consegna in mani sconosciute. Una scelta disumana. Un sacrificio assoluto. Di fatto, una roulette russa – disperata e senza alternative – perché nessuno può prevedere cosa succederà davvero dall’altra parte del muro, se quella bambina affidata agli ultimi soldati rimasti a presidiare l’aeroporto di Kabul avrà un futuro, sarà accolta da una nuova famiglia, potrà crescere e andare a scuola. Oppure no. Ai confini della civiltà la vita è appesa a un filo, più precaria di un miraggio. Eppure, quelle madri disperate non hanno dubbi: sarà molto peggio al di qua del muro, nell’Afghanistan tornato in mano ai talebani.
Per loro – per quelle figlie passate oltre i reticolati, in alcuni casi addirittura lanciate in aria, con il rischio di restare impigliate nel filo spinato – meglio affrontare l’ignoto che finire schiave degli integralisti islamici, spose bambine nelle grinfie di adulti senza onore. Restare significherebbe vivere sotto le disumane regole della sharia, la legge islamica che – nell’accezione più rigida – impone alle donne l’uso del burqa, ne limita le libertà e le possibilità di espressione, addirittura ne prevede la lapidazione, la decapitazione o le pubbliche frustrate – senza neppure bisogno di un processo – se accusate di adulterio o apostasia (il ripudio della propria religione).
A quelle madri disperate «il dolore della separazione fa meno paura della vendetta dei miliziani islamici tornati al potere», ha commentato la giornalista Laurence Figà Talamanca, esperta di questioni internazionali. E quanto sia spietata la logica del terrore lo ha spiegato con estrema efficacia l’editorialista Ferdinando Camon: «Il massimo male al tuo nemico non lo fai uccidendogli il padre o la madre, ma uccidendogli il figlio o la figlia. Perché se uccidi il padre o la madre, la famiglia è amputata, ma sopravvive: male, nel lutto, ma sopravvive. Se uccidi il figlio o la figlia, invece, la famiglia muore. Il nemico lo sa. E in Afghanistan i nemici che arrivano e prendono tutto sono i talebani», quelli che «nel loro diritto di guerra, dichiarano le bambine bottino militare».
È proprio per evitare questa barbarie che le madri «le buttano in braccio a chiunque possa portarle via da lì». Ma il sollievo della speranza dura solo un istante: «Quando le mani dei soldati le prendono, al di là del muro, quelle madri lanciano un urlo: è in salvo – credono. Appena dopo, però, un buco si apre nel loro petto, nel percepire le proprie braccia vuote. Come se oltre al muro avessero lanciato il proprio cuore» (Marina Corradi, su Avvenire).
Di fatto, in Italia nessun commentatore è rimasto insensibile di fronte alle immagini di disperazione arrivate in settimana da Kabul. «Sugli aculei di quel filo spinato si sono infilzate non solo le carni degli innocenti, ma anche le nostre contraddizioni – ha denunciato Melania Mazzucco su Repubblica -. I cellulari levati per fissare quella drammatica scena sono le uniche armi dei vinti». E le immagini che hanno propagato nel mondo «pungono e lacerano le coscienze», tanto che «per esserne all’altezza» ognuno di noi dovrebbe «asciugare le lacrime salate di ipocrisia e diventare le braccia di quel soldato che afferra la bambina».
Peccato che allo sdegno diffuso non si accompagni una reale disponibilità a farsi carico di quelle giovanissime «orfane» in fuga. Lo testimonia l’esito del sondaggio online realizzato da “La Provincia di Cremona”, nulla di scientifico, sia chiaro: solo il termometro di un sentimento. Ebbene, nonostante i sindaci dei tre maggiori centri del territorio (Cremona, Crema e Casalmaggiore) si siano subito dichiarati favorevoli all’accoglienza dei profughi afghani, la metà dei partecipanti al sondaggio ha manifestato contrarietà: uno su cinque ha detto che tocca agli Stati Uniti gestire l’emergenza, perché americana è la responsabilità di ciò che sta accadendo (Washington ha commesso gravi errori di valutazione e di strategia, certo, ma non bisogna mai confondere causa ed effetto: la colpa delle colpe resta dei talebani) e uno su quattro ha «concesso» di aprire le porte, sì, ma solo «a pochissimi» rifugiati, il minimo necessario per lavarsi la coscienza.
Anni di sovranismo e di primatismo, ma in determinati casi anche di immigrazione incontrollata, evidentemente, hanno lasciato il segno e indurito i nostri cuori: non si spiegherebbe altrimenti la mancata solidarietà verso un popolo in fuga dal terrore proprio da parte nostra, di noi italiani che se 76 anni fa non fossero venuti inglesi e americani a liberarci saremmo ancora sottomessi a fascisti e nazisti, i talebani del Novecento.
«Solo dall’inizio dell’anno in Afghanistan sono stati uccisi più di 550 bambini e 1.400 sono stati feriti», rivela il portavoce Unicef per l’Italia, Andrea Iacomini, prima di ricordare che l’Afghanistan è uno dei due Paesi al mondo in cui, ancor più del vaccino anti-Covid, manca il vaccino anti-poliomielite e che «senza un’azione urgente un milione di bambini sotto i 5 anni saranno gravemente malnutriti entro la fine dell’anno». Ce n’è abbastanza per provare vergogna. E mobilitarsi affinché la comunità internazionale si faccia carico dell’emergenza afghana, con passi concreti e tempestivi, perché se gli Usa non possono e non vogliono più essere i gendarmi del mondo, qualcuno (l’Onu?) deve pur impedire il massacro di civili innocenti, donne e bambini in balìa di uomini barbuti e senza scrupoli.
Già una volta, in passato, il mondo ha chiuso gli occhi, fingendo di non sapere cosa stesse accadendo nei campi di prigionia e sterminio di Polonia, Austria e Germania: fu l’Olocausto del popolo ebreo. Una volta scoperto l’orrore, la promessa solenne fu «mai più». Ed è decisamente arrivata l’ora di mantenere l’impegno.
MARCO BENCIVENGA
Direttore “La Provincia di Cremona”