Bella cosa, la globalizzazione! In pochi anni ha rimpicciolito il mondo e ci ha garantito vantaggi e servizi un tempo impensabili. Per esempio, la possibilità di mangiare il frutto preferito tutto l’anno, anche fuori stagione. Come? Basta farlo arrivare dall’altra parte del mondo: Perù, Cina, Australia… Se ci pensi, ti chiedi com’era, quel frutto, quando l’hanno raccolto. Ma intanto lo stai mangiando. Vale per il cibo, come per l’ultimo prodotto hi-tech realizzato nella Silicon Valley: lo puoi acquistare on line e un fattorino (targato Amazon o altro) te lo porta fino a casa. Senza alzarti dal divano, in alternativa, puoi vedere l’ultimo film realizzato a Hollywood, magari in lingua originale: basta avere una smart-tv e abbonarsi a Netflix (o a qualsiasi altra piattaforma) e il gioco è fatto. Grazie alle nuove tecnologie le distanze si sono azzerate e migliaia di opportunità sono diventate alla portata di tutti. Quantomeno di tutti quelli che se le possono permettere, perché le comodità – si sa – hanno un prezzo. E può capitare che per qualcuno siano un lusso insostenibile.
Il vero problema però è un altro. Il vero problema è che il progresso ha sempre un rovescio della medaglia, nel caso della globalizzazione, in particolare, due fastidiosi effetti collaterali: da un lato il crollo del valore dei prodotti all’origine (il vero guadagno ormai non arriva a chi crea un prodotto, ma a chi lo distribuisce), dall’altro lo sfruttamento della forza lavoro (più è forte il committente, magari grazie a una posizione di monopolio, meno potere contrattuale ha chi vende un prodotto o un servizio). Non basta.
Il «mercato globale» porta con sé anche altre conseguenze negative. La prima criticità è la fragilità del sistema dei trasporti, plasticamente balzata agli occhi di tutti un paio di mesi fa: è bastato che una nave cargo si incagliasse nel canale di Suez per mandare in tilt mezzo mondo, con ritardi nelle consegne, carenza di approvvigionamenti, vertiginoso aumento dei prezzi. Perché tutto è concatenato, collegato, interconnesso. Il problema nel problema è che la spia accesa da quel singolo incidente rischia di trasformarsi a breve in un’emergenza strutturale: tutta colpa della pandemia e del lockdown che per oltre un anno hanno frenato la produzione e il traffico di merci a livello planetario. Per molti mesi i consumi si sono letteralmente fermati: le aziende più forti hanno resistito (non così le meno attrezzate, costrette ad alzare bandiera bianca), la rete distributiva è andata in sofferenza, i commercianti al dettaglio hanno fatturato «incasso zero».
Le vere conseguenze della pandemia, però, devono ancora arrivare. Sia sul piano dell’occupazione (con migliaia di posti di lavoro persi per sempre) sia sul piano strettamente economico. L’allarme più assordante riguarda la disponibilità – e di conseguenza – il costo delle materie prime: rame, acciaio, mais, caffè, grano, soia, legno, semiconduttori, plastica, gomma, cartone per imballaggi e mille altri prodotti semilavorati sono diventati introvabili. O carissimi. Perfino il prezzo dei rottami in ferro è salito alle stelle, anche perché – come sempre accade in questi casi – nel gioco della domanda e dell’offerta la corsa all’accaparramento delle poche scorte disponibili ha fatto il gioco degli speculatori e ulteriormente alimentato l’impennata dei costi. Un effetto a catena che ricadrà sull’intera filiera.
E la progressiva riapertura di molte attività, paradossalmente, rischia di acuire il problema, anziché risolverlo, perché la ritrovata domanda di beni richiede un immediato aumento della produzione e chi produce deve ordinare componenti e materie prime in gran quantità. Ma si tratta di una sfida ricca di incognite, dopo che – secondo i calcoli di Bloomberg – il rame si è apprezzato del 47% rispetto ai livelli pre-Covid; il grano del 12%; la soia del 15; il legno per pallet del 20; l’alluminio del 26, il nichel e lo zinco addirittura del 51 per cento. Facile immaginare chi pagherà il conto per tutti: il consumatore finale. Ovvero, ognuno di noi. Senza alcun reale vantaggio per i produttori. Anche questa è la globalizzazione. Non bastasse, un altro virus si prospetta minaccioso all’orizzonte, anzi è già fra di noi: è il malware che infetta e rende inutilizzabili server, pc, tablet e smartphone di aziende, uffici pubblici e privati, e di chiunque utilizzi un dispositivo on line. Quanto il rischio sia reale, non solo teorico, lo dimostra l’ultimo report di Trend Micro Research, agenzia specializzata in cybersecurity. Secondo lo studio, con 5 milioni di segnalazioni (cinque milioni!) nel solo mese di aprile, l’Italia è il terzo paese al mondo più colpito dai malware, i virus informatici usati dagli hacker per sottrare soldi o informazioni personali con l’arma del ricatto: o mi paghi o non potrai più accedere ai tuoi dispositivi, alle tue mail, ai tuoi archivi.
La classifica mondiale delle cybertruffe vede al primo posto gli Stati Uniti, poi vengono il Giappone e – dopo l’Italia – l’India e l’Australia. Anche questa, dunque, è un’emergenza planetaria. In Italia la famiglia di malware più rilevata a livello aziendale il mese scorso è stata quella dei cosiddetti Downad, virus che possono infettare l’intera rete di una società sfruttando sistemi operativi obsoleti e non aggiornati. I privati, invece, sono stati maggiormente colpiti dai Coinminer, virus che si nascondono all’interno di un sistema per sfruttarne le capacità di calcolo e produrre criptovalute come i Bitcoin all’insaputa degli utenti. Succede nel mondo, succede in Italia, succede…
Bella cosa la globalizzazione e belle le nuove tecnologie. Ma quante controindicazioni. E quanti problemi in più da affrontare per poter gustare un frutto fuori stagione o guardare l’ultimo film sul televisore di casa…
MARCO BENCIVENGA
Direttore “La Provincia di Cremona”