Non voto, ma guardo il grande fratello

Il giorno dopo le elezioni Amministrative di domenica scorsa, mentre gli sconfitti si leccavano le ferite e i vincitori finivano lo champagne stappato per festeggiare il successo (o lo scampato pericolo), nelle case di 60 milioni di italiani i televisori proponevano una manciata di opzioni, Netflix e Amazon Prime esclusi: un paio di film, un reality, una nuova trasmissione scientifica e 3-4 talk show in diretta a commento del voto. Il responso dell’Auditel si è sovrapposto a quello delle urne: ha vinto il disimpegno. Nello stesso giorno in cui nelle grandi città per la prima volta la maggioranza assoluta è stata “conquistata” dagli elettori che hanno disertato i seggi, la trasmissione più vista di tutte è risultata “Il Grande Fratello Vip”: 21,6% di share. In pratica più di un italiano su cinque ha preferito le urla scomposte del paragnosta Giucas Casella e della superdotata Francesca Cipriani alle analisi politiche di Bruno Vespa e dei suoi numerosi ospiti (leader di partito, neoeletti, trombati e opinionisti di grido). Porta a Porta ha ottenuto solo l’8,5% degli ascolti, meno di un telespettatore ogni dieci. Tutto normale? Perché stupirsi? Giusto così? Non proprio…

Al netto della legittima voglia di svago di milioni di cittadini oppressi dalla pandemia e del fatto che non si può pretendere che la gente dedichi le sue serate a ripassare la storia dei Maya dopo una lunga giornata di lavoro, il segnale è allarmante. Anche perché fa il paio con un inquietante tasso di disinteresse verso l’impegno pubblico da parte di una fetta sempre più consistente di società. “Un tempo bastava leggere il “Corriere della sera” o guardare il Tg1 per sapere tutto ciò che era necessario sapere. Ora non è più così: ora siamo perennemente inondati di informazioni, che ci arrivano in tempo reale dalla tv, dalla radio, dai social e dagli smartphone. “E il flusso è talmente ricco da costringere ognuno di noi a scegliersi un proprio canale di comunicazione di riferimento per non perdere la bussola”, ha recentemente osservato il professor Carlo Sorrentino, ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi dell’Università di Firenze.

Non solo: oggi molte persone credono di “saperne abbastanza” solo perché hanno visto passare sul display del proprio telefonino un post su Facebook, spesso accontentandosi del titolo, senza neanche fare lo sforzo di leggere l’articolo o la notizia sottostanti (lo dimostrano i numeri di Analytics) ed è proprio così che nascono le fake news, i movimenti no vax e le distrazioni di massa.

In realtà, non tutto il male viene per nuocere, sostiene un editorialista illuminato come Antonio Polito. “Quando l’astensionismo supera la quota fisiologica, può anche voler dire che in gioco c’è qualcosa di più importante del conflitto politico, perché quest’ultimo non sembra produrre conseguenze così rilevanti sulla vita quotidiana dei cittadini, tali da indurli a votare”, ha spiegato l’editorialista citando il politologo tedesco Ralf Dahrendorf, secondo il quale “l’astensione può essere un effetto collaterale della maturità di una democrazia, perché quando alle elezioni non è in gioco un cambio di regime, ma solo aggiustamenti minori tra due o più schieramenti, nessuno dei quali ci fa rischiare un salto nel buio, gli elettori sentono meno il bisogno di mobilitarsi”. Da qui, una lettura pro Governo Draghi del voto alle Amministrative di domenica scorsa “perché se nel Paese ci fosse stata voglia di far saltare il banco, le urne sarebbero state ben più piene, e gli elettori l’avrebbero detto con chiarezza”. Insomma, secondo Polito “molti italiani hanno mostrato poco interesse per la gara dei partiti, semplicemente perché l’hanno giudicata irrilevante rispetto alle cose che contano”. Forse è una lettura ottimistica della fuga degli elettori dalle urne, ma non lontana dal vero.

Tocca dunque ai partiti offrire ai cittadini nuovi stimoli, nuove opzioni, nuovi sensi di appartenenza. Altrimenti si finisce per delegare le scelte che contano a una ristretta oligarchia o, ancor peggio, per confondere la lotta politica con gli scontri di piazza (come è successo sabato a Roma) o con le intimidazioni personali, come quella che in settimana è toccata al sindaco di Cremona, Gianluca Galimberti. Affiggere un cartello e lasciare sacchetti di rifiuti davanti alla porta di casa di un primo cittadino non è una goliardata né una simpatica provocazione. È una mancanza di rispetto, un’invasione di campo che coinvolge la vita privata e addirittura la famiglia di un pubblico amministratore: significa confondere la persona con la funzione. Ed è inaccettabile.

Bene ha fatto l’Anci (Associazione Nazionale dei Comuni d’Italia) a sottolineare che i sindaci non possono diventare bersagli e bene ha fatto il Prefetto di Cremona a convocare d’urgenza il Comitato provinciale per la sicurezza e l’ordine pubblico, a definire “esecrabile” l’episodio e a offrire “la massima tutela” al sindaco e alla sua famiglia. Perché se non si mette subito un freno a simili comportamenti, la prossima volta – anziché i rifiuti davanti alla porta di casa – il primo cittadino della civile Cremona si troverà una testa di cavallo nel letto. E la linea gialla del tollerabile sarà stata definitivamente superata.

Stupisce, in un simile clima, il fragoroso silenzio delle forze di opposizione. Neppure gli specialisti dei comunicati stampa e dei post indignati a ogni stormir di fronda hanno espresso solidarietà al sindaco di Cremona (l’hanno fatto soltanto il Pd e i sindacati confederali): forse, gli avversari non hanno capito che – al di là delle differenti opinioni sul green pass e dei possibili errori commessi nella nuova modalità di raccolta dei rifiuti – oggi il bersaglio è stato questo sindaco, ma domani potrebbe essere chiunque.

MARCO BENCIVENGA

Direttore “La Provincia di Cremona”

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