Il clangore delle armi si è spento. Le polveri della battaglia si sono depositate a terra. E le macerie rimaste sul campo hanno smesso di alzare colonne di fumo verso il cielo. A sette giorni di distanza, in apparenza la guerra del Quirinale è finita nel migliore dei modi: senza vincitori né vinti. E con un nome di assoluto prestigio al Colle.
In realtà, dopo la sofferta rielezione di Sergio Mattarella alla Presidenza della Repubblica un dubbio continua ad aleggiare nell’aria: i partiti hanno capito la lezione o stanno festeggiando lo scampato pericolo? La sensazione è che la risposta giusta sia la seconda, perché costringere il Presidente uscente a disdire il trasloco e tornare sui suoi passi non è stata una prima scelta programmata e convinta (in questo caso Mattarella sarebbe stato candidato ed eletto fin dal primo scrutinio), ma si è rivelata la soluzione più comoda e vigliacca fra tutte le opzioni possibili.
Comoda perché formalmente salva la faccia a tutti, nascondendo l’incapacità del Parlamento di superare egoismi e veti incrociati per convergere su un nome solo, alternativo e condiviso; vigliacca perché scarica tutto il peso del Paese sulle spalle di un uomo che i partiti sapevano non si sarebbe sottratto alla chiamata – tanto grandi sono il suo senso di responsabilità e il suo rispetto per le istituzioni – ma che in ogni modo e a più riprese aveva manifestato la propria indisponibilità ad aggiungere altri anni ai sette già trascorsi al Quirinale. Richiamare in servizio Mattarella è stato come «rompere il vetro in caso di emergenza».
E’ una possibilità prevista da ogni efficace piano antincendio, è vero, ma solo come ultima spiaggia, dopo aver fallito ogni possibile alternativa. Nel caso del Quirinale il problema è che non esisteva alcun piano e tutte le forze politiche sono arrivate all’appuntamento con il voto impreparate: il M5S, primo partito in Parlamento, dilaniato da un’ormai conclamata crisi d’identità e da incontrollabili faide interne; il Pd per la prima volta in posizione subalterna, costretto a giocare in contropiede come una squadra di Conte (Antonio…), Trapattoni o Mourinho; il centrodestra impantanato fino all’ultimo nell’autocandidatura di Silvio Berlusconi, sul piano umano un bel gesto di riconoscenza, politicamente un errore fatale, perché si sapeva fin dall’inizio che l’ex presidente del Consiglio sarebbe andato a sbattere, ma nessuno dei suoi ha avuto il coraggio di dirglielo in faccia: «Caro Silvio, grazie di tutto, ma fatti da parte perché i voti necessari per realizzare il tuo sogno non li raggiungeremo mai».
In un simile scenario vecchi e nuovi king-makers con una certa dose di presunzione hanno finito per recitare a soggetto: hanno improvvisato giorno per giorno, bruciando nomi più o meno autorevoli a ogni scrutinio. Inevitabile il finale della storia. Che, però, un vero finale non è, perché… risolto un problema ora ne restano altri mille (cit). E i partiti sono addirittura più deboli di prima: non solo perché lo spettacolo che hanno offerto ha aumentato la disistima di cui già godono e la distanza fra il Palazzo e la vita reale, ma perché il caso Mattarella ha plasticamente evidenziato tutti i limiti della nuova politica, la politica del consenso istantaneo, dei social e degli #hastag che inseguono il topic trend del momento, anziché una visione a medio e lungo termine.
Abituati a gestire l’hic et nunc – il qui e subito di antica memoria – i partiti, tutti i partiti, si sono bloccati di fronte a una scelta che li avrebbe inchiodati per i prossimi sette anni. Certo, nei momenti più difficili le forze politiche italiane hanno spesso dimostrato una sorprendente capacità di rigenerarsi, come le salamandre che riescono a ricostruire gli arti che si feriscono o addirittura si amputano nella lotta quotidiana per la sopravvivenza.
Ma alle storiche spinte centrifughe, all’interno di ogni partito oggi si aggiunge una nuova, pericolosa, sindrome: l’individualismo. Se prima bastava essere candidati nel partito giusto – mettersi sotto l’ombrello dell’insegna vincente – per avere la quasi certezza di essere eletti (quanti deputati e senatori senza meriti né pedigree sono finiti in Parlamento solo perché sono saliti sul carro giusto al momento giusto? Moltissimi!) ora le parti si sono rovesciate: ognuno gioca per sé, anziché portare voti al partito insegue il proprio spazio di visibilità, rivaleggiando con i propri compagni di viaggio prima ancora che con gli avversari. E la tendenza toccherà l’apice alle prossime elezioni Politiche, quando l’autoriforma del Parlamento produrrà un risultato shock: la drastica riduzione dei posti disponibili. Il rischio è che dal «rompere il vetro in caso di emergenza» si finisca al «tutti contro tutti», se non direttamente al «si salvi chi può», un destino davvero crudele per la nostra povera Italia, che è stata a lungo culla di democrazia e modello di civiltà.
MARCO BENCIVENGA
Direttore “La Provincia di Cremona”