All’inizio fu la paura. Anzi, il terrore. La prospettiva di finire intubati, in terapia intensiva e senza fiato, convinse milioni di cittadini ad accettare qualsiasi cosa pur di «salvare la pelle»: limitazioni alla libertà individuale, sacrifici, lavoro a distanza, perfino provvedimenti perentori come il coprifuoco e il lockdown (in italiano: stop ad ogni attività), mai adottati in precedenza in tempo di pace. Solo i nostri nonni avevano vissuto qualcosa di simile, in gioventù, sotto i bombardamenti della Seconda Guerra mondiale. Quattrocento e passa giorni (e oltre 110 mila morti) dopo l’inizio della pandemia, la paura ha progressivamente lasciato il posto all’ira, alla frustrazione, alla protesta. Anche se si continua a morire: in Italia alla media di una vittima ogni tre minuti.
Mentre il virus continua a colpire, c’è chi protesta perché non può più prendere l’aperitivo in compagnia. C’è chi protesta perché quell’aperitivo (ma anche il caffè, il cappuccino, la brioches, un liquore o la focaccia farcita) non può servirlo ai clienti seduti al tavolino: ammesso solo l’asporto. C’è chi protesta perché lo stop non si limita a caffè e ammazzacaffè, ma vieta di mettere in tavola pure marubini, lessi, mostarda, capretti, salumi, filetti, risotti, sushi e ogni altra prelibatezza offerta dal suo ristorante o trattoria. C’è chi protesta perché non può andare al cinema.
C’è chi protesta perché lavorava nei teatri, nelle sale di incisione e nei pianobar e oggi al massimo può improvvisare un concerto da marciapiede, con il cappello rovesciato davanti all’altoparlante confidando nella generosità dei passanti (non troppi, per carità, sennò diventa assembramento). C’è chi protesta perché non può comprarsi (o non può vendere) un abito, una maglietta o un paio di scarpe, mentre negozi di altre categorie merceologiche (perfino le bambole!) sono regolarmente aperti. C’è chi, giustamente, si lamenta perché ha l’attività ferma, quindi non produce rifiuti, ma deve ugualmente pagare la Tari. C’è chi protesta perché da mesi non può andare a Messa. O a visitare i propri nonni ricoverati in casa di riposo, però il campionato di calcio intanto continua come se nulla fosse.
C’è chi si lamenta perché costretto a passare Pasqua e pasquetta in giro per casa e campagna… C’è chi protesta perché ha la casa al mare o in montagna, magari isolata, ma non ci può andare. C’è chi protesta perché si può fare una vacanza a Formentera (seppur con qualche restrizione: tampone, mini quarantena, eccetera) non invece una gita a Pontedilegno o sul lago di Como. C’è, ancora, chi protesta perché le scuole sono chiuse, la Dad non funziona, i figli soffrono se non incontrano gli amici, ma non possono neppure essere lasciati a casa da soli, e allora a chi affidarli se entrambi i genitori devono lavorare? L’elenco di chi ha buone ragioni per protestare è lunghissimo, quasi infinito.
Stupisce, però, che fra tanti scontenti, arrabbiati e disperati nessuno sia ancora sceso in piazza per l’unica ragione per cui varrebbe davvero la pena protestare: il diritto a essere vaccinati. Anzi, a essere vaccinati presto e bene. Perché quello – il vaccino – è davvero l’unico rimedio definitivo contro la pandemia e tutte le limitazioni che ci ha imposto; l’unica chiave per uscire dall’emergenza e tornare alla normalità, se non proprio alla vita di prima. Solo la somministrazione massiva delle due dosi Pfizer, AstraZeneca o Moderna o della monodose Johnson&Johnson, quando finalmente arriverà, ci permetterà di uscire tutti insieme dal tunnel del Coronavirus e riprendere a vivere, incontrarci, sederci attorno a una tavola imbandita, andare a teatro, prendere un caffè e scambiare due chiacchiere al bar, fare scuola in presenza, praticare uno sport, tagliarci i capelli dal parrucchiere, acquistare un vestito nuovo, concederci un week end vista mare (o vista Dolomiti, dipende dai gusti).
Basterebbe la «pozione magica» per uscire dall’incubo e, invece, la campagna vaccinale procede ancora a rilento, gli hub già allestiti viaggiano a velocità ridotta perché le dosi non bastano e il sistema delle prenotazioni non funziona (bocciata Aria, ora confidiamo nelle Poste), mentre i poli vaccinali che ancora devono essere realizzati saranno temporaneamente imbastiti da un’impresa locale per poi essere smontati e rifatti dall’impresa di Napoli che ha vinto il bando indetto dalla Regione Lombardia (succederà a Brescia, ma non solo): un inaccettabile spreco di risorse e di tempo.
Il presidente Attilio Fontana e la sua vice Letizia Moratti, è vero, in settimana hanno stilato un nuovo crono-programma di prenotazioni e somministrazioni suddiviso per fasce di età, ma tutto sarà comunque subordinato alla disponibilità dei vaccini e dei medici vaccinatori, perché un conto è fare tabelle, annunci e promesse; tutt’altro avere la garanzia che saranno rispettati. Ecco perché sarebbe bello che per una volta la gente scendesse in piazza non per protestare contro qualcosa o qualcuno ma per gridare «sì subito», per invocare il vaccino prima possibile e per più persone possibile. Altro che no vax! Serve un movimento sì vax, sì alla vita, sì alla rinascita, sì alla resurrezione collettiva. In fondo, oggi è ancora Pasqua, o no?
Se non ora, quando?
MARCO BENCIVENGA
Direttore “La Provincia di Cremona”