Fa impressione leggere giorno per giorno i tormenti dei tre partiti politici che negli ultimi vent’anni si sono divisi il maggior numero di consensi fra gli italiani: Partito Democratico, Lega e Movimento 5 Stelle. Solo nel 2008 (quattordici anni fa, non nel Paleolitico) il Pd era stato capace di ottenere oltre 12 milioni di voti alle Politiche e alle Europee 2014 aveva superato la storica soglia del 40% dei consensi. Erano i tempi d’oro della stagione renziana, destinata a infrangersi due anni più tardi sullo scoglio del referendum costituzionale e dello smisurato ego dell’ex sindaco di Firenze.
Al progressivo ridimensionamento del Pd (solo 5 milioni di voti lo scorso settembre) ha fatto da contraltare nel nuovo millennio la clamorosa crescita della Lega, creata negli anni ‘90 da Umberto Bossi come «Lega Nord per l’indipendenza della Padania» (fortissima in Lombardia e in Veneto, ma incapace di affermarsi nel resto del Paese), trasformata in movimento nazionale da Matteo Salvini nel 2017 e capace di toccare l’apice del successo alle Europee del 2019 conquistando oltre 9 milioni di voti e il 34% dei consensi. Un bottino clamoroso, che la Lega – nel frattempo diventata «per Salvini Premier» – ha dilapidato però in soli tre anni, fino a precipitare lo scorso settembre a due milioni e mezzo di voti (e all’8,8% per cento dei consensi).
E il M5S? Fondato nel 2009 da Beppe Grillo e Roberto Casaleggio – abili a intuire lo scontento di gran parte degli italiani, puntando sulla partecipazione diretta dei cittadini contro i privilegi della cosiddetta «casta» – alle Politiche del 2018 era diventato la prima forza del Parlamento, ottenendo ben 10,7 milioni di voti e il 32,8% dei consensi. Nonostante il «turbo» del Reddito di cittadinanza che ne ha favorito la tenuta fra gli elettori del Sud, però, tre mesi fa il M5S ha perso su base nazionale ben 6 milioni di voti e più della metà dei consensi.
Ricapitolando: pur avendo ideali, figure di riferimento e programmi estremamente diversi, negli ultimi vent’anni le tre forze politiche più popolari del Paese hanno seguito una traiettoria simile. A turno, hanno conquistato il favore della maggior parte degli italiani e altrettanto velocemente… l’hanno perso. Così, mentre i nuovi vincenti (i Fratelli d’Italia) fanno gli scongiuri per non rischiare la stessa fine, oggi Pd, Lega e M5S fanno notizia solo per le loro lotte interne, la fragilità delle leadership e le crisi d’identità che li attanaglia.
Il Pd, per esempio, si sta spaccando sul nome del nuovo segretario nazionale, dividendosi fra la componente «rivoluzionaria» della neodeputata Elly Schlein (37 anni, nata in Svizzera da madre italiana e padre statunitense, tanto da avere la tripla cittadinanza, paladina dei diritti civili e dell’ambientalismo, già volontaria per la campagna elettorale di Barack Obama, europarlamentare e vicepresidente della Regione Emilia Romagna) e la più rassicurante linea riformista rappresentata da Stefano Bonaccini (55 anni, modenese, ex Pci, politico di professione, al secondo mandato come governatore dell’Emilia Romagna). Dov’è lo scandalo? Secondo Antonio Polito, eminente politologo del Corriere, non certo nel profilo dei due aspiranti salvatori della patria, ma nel dubbio che il Pd «a furia di perdere le elezioni abbia perso anche l’anima», tanto da aver bisogno di «ritrovare l’ispirazione originale, il filo conduttore smarrito».
Poco male, se non fosse che «nessuno sa più quale sia quel filo, tanto da aver chiamato 87 saggi a rifare il lavoro compiuto dai 45 saggi di quindici anni fa» per «riscrivere la carta dei valori fondativi sulla cui base si sono finora chiesti voti e sacrifici ai militanti». Secondo Polito, tutto ciò significa che, di fatto, il Pd «si considera già sciolto», tanto da essere pronto a cambiare nome in Partito Democratico del Lavoro, con implicita doppia ironia sulla futura sigla di rappresentanza: diventerà PdL, come il Polo della Libertà del tanto odiato Silvio Berlusconi, o direttamente Padel, come lo sport più in voga del momento?
Se questa è la situazione in casa Dem, non va tanto meglio nella Lega, dove la storica componente federalista e indipendentista ha dato vita al Comitato del Nord, ufficialmente una corrente interna, in realtà una fronda a tutti gli effetti, legata ai territori, agli amministratori locali e ai militanti della prima ora che non si ritrovano nelle logiche «romane» del Capitano e invocano il ritorno alle battaglie delle origini. Finché vinceva, Salvini zittiva tutti, anche la minoranza interna. Dopo l’ultima sconfitta elettorale, mascherata solo dalla vittoria del centrodestra che ha riportato la Lega al governo (seppur da junior partner), il dissenso interno è tornato a galla. E soltanto il tempo dirà se si tratta di un temporale estivo o di una perturbazione più consistente.
Ancor più agitate sono le acque nel M5S: qui i parlamentari non confermati lo scorso 25 settembre, dopo essersi rifiutati di restituire le quote di indennità a suo tempo pattuite, si sono messi in tasca anche il trattamento di fine mandato, una sorta di Tfr. «Lo dovevamo al M5S, ma quel M5S non esiste più: ora è solo il partito personale di Giuseppe Conte», eccepiscono quelli che volevano «aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno». Fra i più duri spicca Vincenzo Spadafora: «Se non fosse accecato dal suo delirio di onnipotenza e dal suo cinismo, Conte parlerebbe con toni diversi di quelli che chiama scissionisti e invece sono soltanto le persone che, senza alcuna ragione per cui lo meritasse, gli hanno consentito di diventare da avvocato sconosciuto a due volte Presidente del Consiglio», ha dichiarato l’ex ministro con acidità, ma non senza ragione.
Sarà che anche i più grandi amori a volte finiscono male, fra lanci di piatti e cause sugli alimenti, ma davvero noi poveri cittadini non possiamo ambire a una classe politica migliore?
MARCO BENCIVENGA
Direttore “La Provincia di Cremona”