Chissà se Giuseppe Conte conosce le canzoni di Vasco Rossi o preferisce altri generi musicali. Di sicuro l’ultimo Dpcm che ha firmato per contrastare la pandemia da Coronavirus evoca una delle più celebri strofe del rocker di Zocca: la vita è un brivido che vola via, è tutt’un equilibrio sopra la follia. L’ennesimo decreto della Presidenza del Consiglio sicuramente non è poetico come quella strofa di «Sally» che tanti giovani si sono tatuati sulla pelle, come un verso di Shakespeare o di Dante. Quella definizione, però, rende bene il senso di confusione che da Palazzo Chigi si propaga fin nelle case in cui dall’altro ieri siamo di nuovo richiusi.
Non proprio tutti – per la verità – come era successo in occasione del precedente lockdown nazionale, ma solo gli italiani che vivono in alcune Regioni, le nuove «zone rosse» individuate dagli esperti combinando ben 21 parametri, alcuni palesi e facilmente comprensibili (come l’indice Rt che misura l’escalation dei contagi), altri meno facili da percepire (come i casi di infezione non associati a catene di trasmissione note o la distribuzione delle check list nelle rsa), alcuni addirittura basati su errate o ritardate comunicazioni da parte di Regioni disposte a tutto pur di evitare la chiusura di ogni attività «non essenziale».
Ecco, anche questa distinzione pare un difficile equilibrio sopra la follia: perché mai i parrucchieri sono essenziali e le estetiste no? Perché i negozi di profumeria, piastrelle e fiori possono restare aperti e quelli di abbigliamento e calzature no (ma se le scarpe sono per i bambini, allora sì)? Perché bar e ristoranti devono chiudere anche se garantiscono il giusto distanziamento fra i clienti e tutte le precauzioni del caso e gli autogrill, invece, possono restare aperti?
La discrezionalità di certe misure sta confondendo gli italiani, che per difendersi dal virus solo la scorsa primavera avevano accettato senza fiatare la quarantena assoluta e ora, invece, si ribellano, minacciano la disobbedienza civile, si rifiutano di rispettare regole contraddittorie e confuse di cui non comprendono la ragione e il senso. Al netto di complottisti e negazionisti, milioni di italiani per bene non capiscono soprattutto il continuo rimpallo di responsabilità fra Governo e Governatori, fra Stato e Regioni, fra Regioni e sindaci, posizioni spesso tanto in contrasto da suscitare il dubbio che siano dovute all’appartenenza politica dell’uno o dell’altro più che alle reali necessità di questo o quel territorio. Purtroppo, alle storiche divisioni ideologiche fra maggioranza e opposizioni ora si sommano pure le divisioni geografiche. «Il Dpcm che ho firmato non contiene alcuna scelta punitiva verso le Regioni governate dal centrodestra», si è affrettato a garantire ieri il presidente del Consiglio respingendo al mittente le insinuazioni di qualche commentatore politico. «L’unica alternativa alla chiusura differenziata del Paese per zone è il lockdown nazionale», ha poi aggiunto minaccioso.
Certo, non giova all’immagine di chi ci governa l’incredibile vicenda del commissario alla Sanità della Regione Calabria che è esplosa nelle ultime ore. In sintesi: intervistato da un giornalista Rai sulla mancanza di un Piano Covid per due milioni di cittadini calabresi, il generale dei carabinieri in pensione Saverio Cotticelli, in carica come commissario ad acta da due anni, ha accusato il Governo di essersi «dimenticato» dell’esistenza di due Regioni sotto tutela perché sommerse dai debiti (la sua da ben tredici anni, il Molise da sette).
A quel punto il giornalista ha chiesto al commissario di mostrare la lettera con cui chiedeva al ministro come regolarsi e il commissario ha chiesto alla sua vice di cercargliela in archivio. Dopo essere stato bruscamente rimproverato dalla più diretta collaboratrice («La devi finire! Quando fai queste cose devi andare preparato…»), il commissario Cotticelli ha letto la risposta del ministero in diretta, a favore di telecamera, e solo a quel punto si è reso conto che predisporre il piano Covid per la Calabria toccava a lui, non al Governo! Non bastasse, dopo aver risposto con numeri a caso alla domanda del giornalista su quanti siano in questo momento i posti letto in terapia intensiva nella Regione di cui è commissario, Cotticelli ha chiesto aiuto a una voce fuori campo. Che ha subito fornito il dato richiesto, ma a una successiva domanda, ha precisato: «A questo non so rispondere, perché io faccio un altro mestiere, io sono l’usciere».
Come possa funzionare un ente pubblico in cui l’unico ad avere una vaga idea della realtà in cui vive sia l’usciere è un mistero (con tutto il rispetto per gli uscieri) e a poco serve l’immediata revoca dell’incarico decisa ieri da Palazzo Chigi e invocata da tutti i politici e gli amministratori locali subito dopo la diffusione dell’intervista shock. Non ci fosse stato il giornalista, ci si chiede, nessuno si sarebbe accorto di nulla? Nessuno si sarebbe posto il problema?
La verità, come abbiamo già avuto modo di sottolineare in passato, è che la pandemia si sta rivelando un grande amplificatore, la straordinaria cassa di risonanza di tutto ciò che non funzionava già in precedenza, ma prima dell’arrivo del virus restava sotto traccia, segreto, nell’ombra. Al massimo costava alla collettività qualche disservizio o un buco in più nei già disastrati conti pubblici. Ora, invece, sbagliare la gestione dell’emergenza comporta la perdita di migliaia di vite umane o l’imposizione di misure che minacciano le libertà personali e la sopravvivenza di migliaia di imprese. Ed è un lusso che nessun Paese civile si può permettere. Ora, mancanza di competenza e nomine frutto di logiche clientelari rischiano solo di portarci nel baratro.
O nella tomba. Come canta il saggio Vasco Rossi, «Sally è già stata punita, Sally ha patito già troppo, Sally ha già visto cosa ti può crollare addosso». E quando tutto sarà finito «forse qualcuno troverà il coraggio per affrontare i propri sensi di colpa».
Marco Bencivenga
Direttore del quotidiano “La Provincia di Cremona”