Quell’impegno, quella tenacia, quell’insistenza e quella fatica sono «degni di miglior causa». Quante volte lo abbiamo sentito dire davanti all’affannarsi di qualcuno? O quante volte lo abbiamo pensato vedendo comportamenti «sproporzionati allo scopo che li ha determinati» come li definisce il dizionario? Sicuramente l’abbiamo fatto molte volte, trovandoci davanti a persone disposte a tutto pur di affermare un principio o una propria convinzione personale che a noi sembrava meno rilevante (da qui il paragone con battaglie a nostro giudizio più meritevoli di attenzione).
Fra le tante possibili ostinazioni «degne di miglior causa» c’è quella dei cosiddetti No Vax, cittadini che partendo da un presupposto corretto – il diritto alla libertà di scelta di ogni individuo, a partire dai temi riguardati la propria vita e la propria salute – arrivano spesso a conclusioni sbagliate, come l’esistenza di una fantomatica «dittatura sanitaria», la presenza di microchip 5G nel vaccino anti Covid o la folle accusa ai medici di «aver fatto morire deliberatamente i contagiati per poter imporre lockdown, mascherine e coprifuoco».
Sostenere idee strampalate può essere un vezzo, una forma di narcisismo, una voglia irrefrenabile di farsi notare. E fin qui si resta nel campo del tollerabile. Il problema si aggrava quando dalle parole si passa alle azioni, ai piani sovversivi, alle minacce, ed è esattamente ciò sui cui stanno indagando i magistrati di mezza Italia, scoperchiando un vaso di Pandora fatto di rabbia, frustrazioni e ferocia che preoccupa perfino più del Coronavirus.
Lo dimostrano le parole d’odio diffuse attraverso il canale Telegram «Basta dittatura» che sono state intercettate dalla Procura di Torino e risultano agli atti dell’inchiesta: dagli inviti a «impiccare, eliminare, gambizzare e far fuori il dittatore Mario Draghi» (ma anche medici, virologi e giornalisti pro Vax, tutti «da mettere al muro e usare come bersaglio») all’appello a «tirar fuori le armi, perché questa è una guerra, il tempo della rivolta e della disobbedienza» e, come ha scritto qualche testa calda, «la dittatura si combatte con bombe», «bisogna gettare l’acido addosso alle forze dell’ordine, direttamente sul viso dei poliziotti» o «andare a prendere e fucilare questi schifosi, braccio armato dei politici criminali».
Non bastasse, fra i leoni da tastiera c’è chi ha proposto di «dare fuoco a Montecitorio con lancio sincronizzato di bottiglie molotov» e poi di gambizzarne gli inquilini con «due colpi secchi alle ginocchia». Messi di fronte alle proprie responsabilità, alcuni autori di queste aberrazioni hanno candidamente confessato di pensare che «non fossero reati», altri si sono messi a piangere, altri ancora – i più irriducibili – si sono auto dichiarati prigionieri politici pronti al martirio pur di «difendere la libertà».
Di fronte a simili deliri, è evidente che l’Italia negli ultimi decenni abbia sbagliato molto in tema di educazione civica e che il rispetto delle regole (e degli altri) per troppe persone sia ormai diventato un orpello fastidioso, anziché il fondamento della convivenza civile. Bene dunque fa la magistratura ad accendere un faro su questi eccessi patologici, che finiscono per danneggiare anche i moderati della libera scelta, soggetti decisamente meno pericolosi, per quanto inspiegabilmente dubbiosi sull’utilità del vaccino (come sia possibile contestarne l’efficacia di fronte ai dati provenienti dalle terapie intensive o alla nuova ondata di contagi che sta travolgendo i Paesi europei con il più basso tasso di immunizzazione resta un mistero, ma tant’è: ognuno è libero di farsi male come vuole).
La verità è che le parole hanno un peso. «Sono come pietre», ha scritto in un libro Carlo Levi. Molti, però, dimenticano che dalle offese al linciaggio, se non addirittura alla lapidazione su pubblica piazza, talvolta il passo può essere breve. Meglio dunque evitare il rischio, estirpando il male alla radice. Se poi qualcuno volesse comunque scendere in piazza per protestare, le ragioni alternative non gli mancherebbero: anzi, dal diritto al lavoro all’emergenza clima, dai privilegi da abolire al caro prezzi di gas ed energia elettrica, dalla fame nel mondo alla lotta alla corruzione, dai servizi pubblici che non funzionano (scuole, giustizia, sanità, trasporti…) all’evasione fiscale, i motivi per mobilitarsi sono quasi infiniti. Volendo, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Impegnarsi su questi fronti sarebbe forse più difficile e meno popolare, ma nessuno potrebbe definirlo fatica sprecata. O un impegno degno di miglior causa.
MARCO BENCIVENGA
Direttore “La Provincia di Cremona”