I matematici la chiamano quadratura del cerchio. Significa trovare la soluzione ideale a un problema complesso. O il punto di equilibrio fra esigenze diverse, singolarmente legittime, ma in palese contrapposizione al plurale. Si tratta esattamente della situazione che in questo momento vive l’Italia, Paese che rischia di spaccarsi, dividersi e infilarsi nel tunnel delle tensioni sociali a causa dell’ultima e più temuta conseguenza della pandemia: l’emergenza lavoro. Al centro del dibattito c’è il blocco dei licenziamenti che il Governo Conte ha imposto quindici mesi fa alle aziende in difficoltà o chiuse per Covid per evitare che la crisi di sistema ricadesse sulle spalle degli ultimi anelli della catena, i soggetti più deboli, i lavoratori. Nel momento più difficile dell’emergenza sanitaria lo scudo ha scongiurato il peggio, ma ora che la tempesta è (quasi) finita, è ora di pagare il conto.
Il divieto di licenziare scadrà fra pochi giorni, il 30 giugno, e su cosa fare dal primo luglio l’Italia si divide in almeno tre blocchi: da una parte i sindacati, che temono un’ondata di esuberi e tagli senza controllo; dall’altra Confindustria, che preme per dare alle aziende le possibilità di ristrutturarsi, adeguandosi alla nuova realtà del mercato globale. In mezzo i partiti politici, che strizzano l’occhio ai rispettivi elettorati: possibilisti quelli del centrodestra, orientato a estendere gli ammortizzatori sociali il Pd, pronti a battersi per la proroga del divieto di licenziare M5S e Leu. Toccherà a Mario Draghi mediare fra le varie posizioni e… far quadrare il cerchio. Di sicuro una scelta va fatta, perché l’immobilismo scontenta tutti e aiuta nessuno. Certo, non sarà una scelta facile, perché si gioca con la vita delle persone (nonostante lo scudo, quasi 900 mila italiani hanno già perso il lavoro nel primo trimestre del 2021 rispetto allo stesso periodo del 2020 e chissà mai se lo ritroveranno), ma in gioco c’è anche la sopravvivenza di migliaia di aziende che hanno fatturato zero o poco più per oltre un anno e ora che i consumi sono ripartiti – oltre alle normali difficoltà – devono fare i conti con i rincari record delle materie prime. In questo caso, la difficoltà più che far quadrare il cerchio è far quadrare i conti.
Per fortuna, fra tante difficoltà non mancano i dati positivi: cinque mesi consecutivi di crescita hanno riportato la produzione industriale ai livelli pre-Covid e rappresentano un segnale molto incoraggiante. Ma ancora non basta, perché in questi 15 mesi molte cose sono cambiate per sempre: alcuni lavori sono letteralmente scomparsi, e non torneranno più; altri, in compenso, sono nati dal nulla. Un po’ è colpa (o merito) dello smart working, un po’ dell’evoluzione tecnologica. Fatto sta che bisogna guardare avanti, non indietro. Bisogna iniziare a ragionare su nuovi parametri, anche perché – non bastassero i nuvoloni neri che minacciano il sistema delle pensioni – misure di sostegno passivo come la cassa integrazione e il reddito di cittadinanza non sono sostenibili all’infinito. La nuova parola magica suggerita dagli esperti è outplacement, termine inglese che significa ricollocazione. In verità, tanto nuovo il vocabolo non è, visto che fu coniato già negli anni ’60 dalla Nasa, l’ente spaziale americano, per far rientrare nel mercato del lavoro migliaia di dipendenti provenienti dal concluso progetto Apollo (quello che portò l’Uomo sulla Luna). L’outplacement punta a riqualificare e ricollocare in differenti contesti aziendali chi ha perso la propria occupazione originaria: l’uovo di Colombo, si dirà. O la mitologica quadratura del cerchio. Ma se all’estero è una pratica diffusa, nell’Italia del posto fisso è un’opportunità tutta da esplorare, con la speranza che non sia solo teorica, al limite dell’utopia, come i posti di lavoro «creati» dai famigerati navigator.
Di certo c’è che oggi sul mercato del lavoro le parole chiave sono elasticità, flessibilità, disponibilità al cambiamento. Vale per i giovani, che non possono più pensare di sistemarsi «a vita», come i loro genitori che firmavano un contratto a tempo indeterminato e, grazie a quello, avevano il posto garantito fino alla pensione. Ma vale anche per i cinquantenni che restano senza lavoro e non ne troveranno un altro, nonostante la grande esperienza acquisita, se non si sforzeranno di aggiornarsi e rinnovare le proprie competenze. Oggi più che mai, chi non sta al passo con i tempi rischia di uscire dal giro, di essere escluso dal mercato del lavoro, scalzato da un nativo digitale che smanetta sul pc, parla inglese, non sente la fatica e, ahilui, costa decisamente meno.
Valga per tutti l’esempio degli impiegati di banca: un tempo erano i lavoratori dipendenti più tutelati e invidiati, oggi rischiano di diventare inutili, quindi sacrificabili, grazie allo sviluppo dell’home banking, delle transazioni on line e dei pagamenti digitali. Ma uno sportello bancario in meno significa meno pranzi di lavoro per bar e ristoranti che campavano anche grazie a quella sorta di servizio mensa, così come ogni convegno che si svolge su zoom anziché in presenza azzoppa il turismo d’affari. Perché è tutto collegato e connesso. Anche se il tema del turnover generazionale non è figlio del Covid né delle nuove tecnologie: da sempre rappresenta una delle maggiori criticità del sistema Italia, con i senior costretti a posticipare sempre più il momento della pensione e i giovani che non trovano sbocchi (o si devono accontentare di lavori precari e sottopagati) perché tutti i posti di lavoro disponibili sono occupati dalla generazione precedente. Rimuovere questo «tappo» è indispensabile affinché l’Italia entri in una nuova dimensione di modernità, grazie anche alle grandi opportunità offerte dai fondi del Next Generation Eu, il piano per la ripresa europea di cui il Recovery Fund è un sottosistema. In tema dell’innovazione e delle nuove competenze naturalmente vale sia per i lavoratori sia per le aziende. Al netto dei danni provocati dalla pandemia, chi fa ricerca, investe e si rinnova regge il mercato. E chi si ferma è perduto.
Da qui il distinguo fra le aziende messe in ginocchio dal Covid, colpite in maniera temporanea e quindi meritevoli di sostegno perché destinate a riprendersi, e le imprese che erano decotte già prima della pandemia e che sarebbe deleterio continuare a tenere in vita artificialmente. Le prime vanno aiutate, con sgravi fiscali, possibilità di ricollocamento degli esuberi e incentivi alle nuove assunzioni; le seconde non possono pensare di sopravvivere grazie alle sovvenzioni pubbliche. In un certo senso, la pandemia ha prodotto una selezione darwiniana. E ingigantito un problema secolare: lo scollamento fra il mondo dell’istruzione – dalla formazione professionale all’università – e i bisogni delle imprese. La prima sfida da vincere è il superamento del pregiudizio sul primato delle materie umanistiche su quelle tecniche: tanti genitori sognano ancora un figlio notaio o avvocato piuttosto che laureato in biologia. Ma la domanda giusta é: meglio un avvocato senza lavoro o un ingegnere prenotato dalle aziende prima ancora che abbia finito il Politecnico? Le nuove tecnologie si evolvono a velocità superiore a quella dei ministeri: così, le grandi aziende che faticano a trovare il personale di cui hanno bisogno ormai se lo formano da sole, creando proprie accademie. Anche Google sta lanciando i propri corsi universitari, cosicché un giorno anziché da un Ateneo i diplomi di laurea saranno rilasciati – e poi consegnati a casa – da un fattorino di Amazon. E non è detto sia un progresso. Sarà pure più comodo e moderno, ma un po’ di nostalgia per il tocco e il bacio accademico va concessa.
MARCO BENCIVENGA
Direttore “La Provincia di Cremona”