La spettacolare cattura del super boss della mafia Matteo Messina Denaro, avvenuta lunedì e ancor oggi in primo piano su tutti i tg e i giornali nazionali, rappresenta al tempo stesso un successo e una ferita per lo Stato Italiano. Un successo perché magistratura e forze dell’ordine hanno dimostrato che nessuno è intoccabile o può farla franca per sempre, neppure un padrino che teneva in casa il ritratto di don Vito Corleone, capomafia hollywoodiano diventato icona con il volto di Marlon Brando.
Il messaggio implicito lanciato dagli investigatori? Puoi nasconderti, puoi fuggire, puoi godere di mille coperture, ma la caccia non finisce mai e stai sicuro che prima o poi riusciremo a prenderti, perché questo è il nostro lavoro, ma soprattutto perché questo abbiamo giurato davanti alle bare dei nostri colleghi uccisi a colpi di lupara o martoriati dalle bombe. Scappa, nasconditi, cambia pure il tuo nome e i tuoi connotati, ma sappi che noi non molleremo mai. E alla fine la giustizia trionferà.
Tanto impegno, tanta determinazione e tanta costanza sono le armi che lunedì hanno permesso la cattura di Matteo Messina Denaro, insieme alle nuove tecnologie e, in particolare, a quello strumento d’indagine ormai imprescindibile che sono le intercettazioni telefoniche (non a caso arma che qualcuno vorrebbe depotenziare con la scusa della privacy). Arrestando Matteo Messina Denaro lo Stato ha rialzato la testa e saldato un debito.
Che siano stati necessari trent’anni per arrivare a tale risultato, però, rappresenta l’altra faccia della medaglia, la ferita difficile da rimarginare. Uno dei dieci latitanti più ricercati al mondo – si è scoperto – viveva tranquillamente in Sicilia. Andava al bar, incontrava persone, entrava perfino in farmacia per acquistare viagra e si sottoponeva a cure mediche in strutture convenzionate come un libero cittadino. Certo, aveva documenti falsi, ma viveva alla luce del sole, non in un bunker sotterraneo. Addirittura, ostentava il suo potere e la sua ricchezza (un patrimonio stimato in 4 miliardi di euro!) indossando abiti firmati e un orologio da 35 mila euro e spendendo 10 mila euro al mese in ristoranti.
Possibile che in trent’anni a nessuno sia mai venuto un sospetto? Possibile che nessun medico, nessun commerciante e nessun ristoratore si sia mai chiesto chi fosse quel sessantenne così facoltoso, da dove provenisse la sua ricchezza, come potesse permettersi un simile tenore di vita? La risposta è ovvia. Così come è comprensibile la paura di chi, pur avendo intuito qualcosa, si è sempre fatto «i fatti suoi». Facile dire «avrebbe dovuto denunciarlo». Esporsi e sfidare il potere mafioso è facile a parole o nel mondo ideale, molto meno in un territorio storicamente sotto minaccia come la Sicilia e il Sud d’Italia.
Ancor meno facile è sfidare uno dei boss più potenti nella storia di Cosa Nostra, un capomafia condannato all’ergastolo che si vantava di aver ammazzato «tanta gente da riempire un camposanto», oltre che di aver ordinato il rapimento di un bambino, il figlio dodicenne di un pentito, che è stato nascosto per 779 giorni in una buca, poi strangolato e infine disciolto nell’acido come il povero Giuseppe Di Matteo. Contro una simile belva non è facile essere coraggiosi. Ma proprio qui si misura la forza di uno Stato, nella sua capacità di garantire protezione (o addirittura una nuova vita) a chi infrange il muro dell’omertà.
E in questo più di tutto ha mancato per trent’anni lo Stato che si è rivelato debole, cieco, opaco, se non addirittura connivente in certe sue espressioni e che ora, invece, va elogiato per aver messo fine a una latitanza insopportabilmente lunga. Tutto è bene ciò che finisce bene? Non proprio. L’arresto di un boss ormai gravemente ammalato segnerà un punto di svolta nella lotta alla mafia soltanto se sarà accompagnato da un autentico cambio di mentalità non solo in Sicilia ma in tutta l’Italia (eh già, perché la mafia ha ormai varcato da tempo gli storici confini e si è infiltrata sotto traccia nell’intero Paese).
«L’arresto di Matteo Messina Denaro rappresenta un regalo immenso alla nostra democrazia: grazie a questo grande colpo diminuirà la presa della mafia sulla politica e sull’economia», ha commentato l’ex magistrato antimafia e membro del Csm Giancarlo Caselli. Ma l’attenzione va posta sulla scelta del verbo usato da Caselli: diminuirà, non sparirà. Non a caso l’ex Procuratore di Palermo ha subito aggiunto: «Non voglio fare la Cassandra in un giorno di festa, ma dobbiamo aver ben chiaro che trent’anni di latitanza sono stati possibili solo grazie a quella zona grigia fatta di relazioni esterne con pezzi del mondo legale – politica, amministrazione, istituzioni e società civile – che rappresenta la spina dorsale del potere mafioso».
L’arresto di Messina Denaro è un grande successo, evidentemente, «ma non bisogna abbassare la guardia – ha ammonito Caselli -: non dobbiamo illuderci che la mafia finisca perché la sua primula rossa è stata catturata. La strada è ancora lunga, dobbiamo perseverare». E la sfida della legalità passa attraverso un cambio di abitudini e di mentalità da compiere a ogni livello. E a ogni latitudine. L’autentico riscatto del Paese, la rinascita dell’Italia come Stato e come comunità, sarà possibile solo con un ritorno collettivo al rispetto delle regole, delle leggi, dei doveri. A partire dalla lotta al narcotraffico e al più subdolo dei reati: l’evasione fiscale, un cancro che toglie risorse indispensabili al bene comune, agli investimenti, ai servizi (sanità, scuole, trasporti…) ma anche alle forze dell’ordine chiamate a garantire la nostra sicurezza.
Ogni scontrino non reclamato, ogni ricevuta non pretesa (magari in cambio di un piccolo sconto, senza rendersi conto che così sarà sempre chi acquista un bene o una prestazione a pagare le tasse, non chi lo produce o lo vende) toglie qualcosa allo Stato e lo consegna all’illegalità. Allo stesso modo, ogni scorrettezza, ogni sopruso, ogni manovra nell’ombra – nella vita pubblica come nel privato, nella scuola o sul posto di lavoro – non può più essere tollerata. L’Italia dei furbi, dei furbetti e dei cospiratori è un Paese senza futuro. La caduta del Padrino può essere l’occasione ideale per ricordarci da quale parte sta il Bene e iniziare a perseguirlo. Prima che sia qualcun altro a imporcelo.
MARCO BENCIVENGA
Direttore “La Provincia di Cremona”