Riformare le pensioni. Impossibile?

Fra le mille riforme di cui ha bisogno il nostro Paese (giustizia, fisco, pubblica amministrazione, legge elettorale, concorrenza, chi più ne ha più ne metta…) in questi giorni una in particolare è in primo piano nell’agenda politica nazionale, al netto dell’appuntamento romano del G20: la riforma delle pensioni. Il tema è delicatissimo perché incide sulla qualità della vita di milioni di persone e in molti casi sulla loro stessa sopravvivenza sociale ed economica. Al di là di ogni disputa ideologica e di bandiera, come la trasformazione della famigerata legge Fornero in un tema da campagna elettorale, la verità è che ministri, tecnici, funzionari, esperti di previdenza, statistici, demografi, sindacalisti e matematici sono alle prese con un’equazione quasi impossibile: garantire la meritata pensione a una platea sempre più estesa di lavoratori anziani, che (per fortuna) vivono e vivranno sempre più a lungo, a fronte di una base attiva sempre più ristretta e che riceve salari sempre più bassi. Il cortocircuito è evidente.

Non bastasse, l’unica soluzione finora adottata – l’innalzamento dell’età minima per maturare il diritto alla pensione – produce un deleterio effetto domino: più a lungo dovranno lavorare i seniores (fino a 62 anni, fino a 67, addirittura fino a 70!) meno posti di lavoro si libereranno per le nuove generazioni. Una simile condizione non solo è moralmente ingiusta, ma condanna il Paese all’immobilismo, perché preclude ogni spinta verso l’innovazione, sia a livello di idee sia nello sfruttamento delle nuove tecnologie, quasi un gioco per i giovani cresciuti a tablet e PlayStation, una montagna da scalare per chi è nato nell’era pre-digitale e ora cerca affannosamente di tenere il passo.

Come se ne possa uscire è difficilissimo anche solo da ipotizzare: la verità è che i nostri padri e i nostri avi hanno avuto il grandissimo merito di ricostruire il Paese devastato da due Guerre Mondiali, hanno saputo innescare il «boom economico» che ha trasformato l’arretrata Italia di inizio Novecento in una delle più grandi potenze economiche del mondo, ma per ottenere questo risultato si sono mangiati un pezzo di futuro: non solo hanno prodotto un debito pubblico mostruoso e in molti ambiti hanno creato un sistema clientelare e corrotto, ignorando qualsiasi criterio di meritocrazia, ma sono stati troppo generosi nel calcolare la sostenibilità a lungo termine del sistema previdenziale costruito nel momento di massimo splendore e prosperità del Paese. Non che abbiano sbagliato i calcoli in assoluto: più semplicemente, li hanno fatti con i numeri che avevano a disposizione in quel momento, senza immaginare come sarebbero evoluti a medio e a lungo termine.

Il teorema è subito dimostrato: al momento dell’Unità d’Italia, nel 1861, gli italiani erano 21,7 milioni e la speranza di vita media non arrivava ai cinquant’anni (49,3 per l’esattezza) perché si viveva in case senza riscaldamento, senza servizi igienici e senza luce, si mangiava poco e male e si moriva di malattie oggi curate in poche ore di day hospital (una su tutte: l’appendicite). Poi è arrivato il progresso, la medicina ha fatto passi da gigante e con l’innalzarsi della vita media (oggi 78 anni per gli uomini e 84 per le donne) il numero dei «viventi» è progressivamente lievitato: dai 47 milioni del 1951 ai 56 del 1981 fino agli oltre 60 milioni di oggi. Risultato: in un secolo e mezzo gli italiani si sono triplicati e hanno guadagnato trent’anni di vita.

Tutto bellissimo, non fosse che il sistema pensionistico tarato sui vecchi parametri non regge più. E il peggio deve ancora venire, perché finora solo una minima parte dei baby boomers ha raggiunto i requisiti per la pensione. Ma il traguardo è vicino: tutti gli italiani nati negli anni ‘60 (la generazione più prolifica della storia) stanno per bussare alla porta dell’Inps e una simile massa di nuovi pensionandi rischia di mandare definitivamente in crash un sistema che già si regge su fragilissimi equilibri e che nel recente passato, più che per gli scopi statutari, è stato usato come ammortizzatore sociale e come fabbrica di consenso, elargendo incredibili privilegi a un esercito di baby pensionati, soprattutto nella pubblica amministrazione.

Ora tutti guardano a Mario Draghi come al possibile salvatore della patria e del sistema previdenziale, ma l’attuale presidente del Consiglio non può fare miracoli, neppure se indossa i panni di SuperMario, l’eroe uscito dai fumetti per entrare a Palazzo Chigi (e il prossimo anno, chissà, al Quirinale). La patata è tanto bollente che chi finora ha provato a prenderla in mano si è scottato le dita. Più che una riforma, a questo punto per uscire dalla buca in cui ci siamo cacciati servirebbe una bacchetta magica.

MARCO BENCIVENGA

Direttore “La Provincia di Cremona”

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