No Vax. No Pass. No Quest… No Quell… La pandemia che avrebbe dovuto renderci migliori – così almeno ci ripetevamo durante il lockdown, quando eravamo tutti chiusi in casa, spaventati da un nemico invisibile e sconosciuto – a distanza di un anno e mezzo ha finito in realtà per dividerci ancor di più, per estremizzare le nostre convinzioni, per alimentare (in qualcuno) l’insofferenza verso le regole, l’autorità, le restrizioni indispensabili per tutelare il bene e la salute di tutti. Finita l’era della solidarietà, dell’aiuto reciproco e dell’Inno di Mameli cantato sui balconi, oggi – all’apparenza – sembrano tornati in auge l’egoismo, l’individualismo e quel malinteso orgoglio nazionale di chi si è autoproclamato patriota, magari mentre – anziché il Tricolore – sventola la bandiera di Casa Pound o di Forza Nuova.
Il distinguo decisivo è tutto in quel «in apparenza». Perché, in realtà, a sfidare il diritto, la scienza e il senso di appartenenza alla comunità civile è solo una ristretta minoranza. Chiassosa, sì, ma pur sempre minoranza. E molto poco rappresentativa. Come quelle forze politiche che durante le campagne elettorali impestano le città di striscioni, post sui social e scritte con lo spray e poi raccolgono solo lo zero virgola dei consensi. È il bello della democrazia, per carità: tutti devono poter dire la loro, esprimersi, sostenere le proprie idee. Ci mancherebbe. Il problema sorge quando si confondono il rumore con il consenso, la visibilità con il peso specifico, la voce grossa con le ragioni.
Più ancora delle stazioni ferroviarie rimaste vuote in settimana, nonostante la minaccia di bloccare i treni lanciata dal popolo dei contrari al Green Pass, a dimostrare il vero sentiment degli italiani sono i discorsi della gente comune: nei bar, negli uffici, in famiglia. Lì si ascolta si percepisce l’Italia vera. Silenziosa, magari. Ma seria e responsabile. E sempre più spesso, in quelle circostanze, i virtuosi – i vincenti – sono i cittadini che rispettano gli altri e le regole, non i furbi che se ne fregano di tutto e di tutti. Sempre più spesso sono i «responsabili» a isolare chi sfida il rischio del contagio, e non viceversa. Sempre più spesso chi indossa la mascherina ha buon gioco a pretendere la stessa cautela da chi pensa di essere immune dal contagio e a ottenere la solidarietà degli astanti, se necessaria.
Vale sui luoghi di lavoro (dove chi rispetta le regole è il primo a chiedere al collega di mettersi prudentemente in quarantena se ha cinque linee di febbre o se è entrato in contatto con un positivo), ma anche al ristorante (dove si pretende la giusta distanza dai vicini di tavolo), a teatro, sul bus, in coda alle poste o in una sala d’aspetto. In un certo senso nell’Anno Secondo della pandemia si ripetono le dinamiche innescate dall’entrata in vigore del divieto di fumo nei locali pubblici, qualche lustro fa: prima, guai a domandare a un tabagista di spegnere la sigaretta. Si rischiava il linciaggio! Ora quando il richiamo della nicotina si fa impellente sono i fumatori più irriducibili a chiedere il permesso di allontanarsi per andare a «fare due tiri» dove non causano danni, se non a se stessi.
Anche i sondaggi pubblicati da giornali, siti e canali social dimostrano qual è il vero sentiment della maggioranza: non sempre sono indagini scientifiche basate sulle regole della statistica, certo, ma rappresentano comunque un termometro significativo sugli orientamenti dell’opinione pubblica. E nel caso del Covid esprimono sempre lo stesso risultato: l’80-90 per cento dei partecipanti alla prova accetta le restrizioni, dice sì al Green Pass, si sente protetto dal vaccino (anche se la percentuale effettiva degli italiani che hanno ricevuto almeno una dose si ferma dieci punti più sotto, attorno a quota 70). La stragrande maggioranza degli italiani, dunque, ha la testa sulle spalle e ascolta medici ed esperti più che stregoni e agitatori di folle.
Ciò nonostante, i dissidenti godono di una visibilità inversamente proporzionale all’attendibilità delle loro tesi, perché distruggere è sempre più facile che costruire e perché spesso si finisce per commettere un errore di pigrizia e di vigliaccheria: dare ragione a chi urla più forte. Invece, a due millenni e mezzo dal celebre aforisma di Lao Tzu, il filosofo cinese che fondò il taoismo, quello che diceva «fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce», è ora di rimettere le cose a posto e di dare il giusto peso a ogni fattore.
Voce a tutti, ascolto e considerazione solo a chi lo merita. Che non significa teorizzare il pensiero unico, ma distinguere un medico che ha studiato per anni, da un tronista che pontifica sul Coronavirus da un salotto tv. Un epidemiologo specializzato in emergenze sanitarie da una cartomante di periferia. Un interlocutore competente e credibile da un pifferaio magico.
Non è difficile. In genere, basta porre due-tre domande basiche (dove l’hai letto? che prove hai a supporto delle tue tesi? quale fondamento scientifico hanno le tue parole?) per trasformare granitiche certezze in bolle di sapone. E convinzioni radicate in fragilissimi castelli di sabbia. Provare per credere. La verità è sempre più forte delle bugie e degli inganni. Dopo due millenni e mezzo, almeno su una cosa continua ad aver ragione Lao Tzu: «Se non ci vedi, meglio accendere una lampada che maledire l’oscurità».
MARCO BENCIVENGA
Direttore “La Provincia di Cremona”