Editoriale

Senza figli, futuro incerto…

Dovevano «allearsi» due giganti come Papa Francesco e il presidente del Consiglio Mario Draghi per riportare al centro della scena politica nazionale il tema più scomodo e, in proporzione alla sua importanza, meno considerato: il crollo delle nascite che minaccia di trasformare il nostro Paese da fertile culla a immensa casa di riposo. Il fenomeno è iniziato a metà degli anni ’70, dopo il baby boom della decade precedente, e di stagione in stagione si è aggravato, fino ad assumere oggi le dimensioni di un’autentica emergenza nazionale. Lo dicono i numeri: nei primi anni del Novecento i fiocchi rosa e azzurri in Italia erano 300 mila all’anno, dopo le due guerre mondiali avevano superato quota un milione, e tale fatidica soglia fu di nuovo superata a metà degli anni ’60, dopo una breve flessione, per poi tornare a calare, sempre di più e sempre più velocemente, fino all’allarmante quota attuale, 404 mila nuovi nati in dodici mesi (dato 2020, il più basso di sempre, ma destinato a peggiorare nel 2021).

Di pari passo con l’evoluzione dei costumi, l’emancipazione della donna, il suo crescente impegno nel mondo del lavoro e il venir meno del ruolo patriarcale dell’uomo, in Italia il tasso di fecondità (significa numero di figli per donna) in soli 75 anni è sceso del 63% (dal 3,1 del 1946 all’1,2 attuale). In fondo basta guardarsi attorno per capire come sono cambiate le nostre famiglie nel volgere di poche generazioni. Se le nostre nonne sfornavano in media 3-4 figli (in realtà anche di più, ma non tutti raggiungevano l’età adulta), le nostre madri ne facevano un paio e ora, secondo l’Istat, i figli unici sono il 46,5% del totale. Personalmente sono arrivato a contare 9 zii e 18 cugini, mentre le mie figlie ne hanno rispettivamente 2 e 4: un crollo verticale, in linea con l’andamento demografico nazionale. Statistiche alla mano, in Italia il tasso di natalità è precipitato dalla quota 23 del 1948 (significa 23 nuovi nati ogni mille abitanti) all’attuale quota 7, una delle più basse al mondo. Nella graduatoria dell’Onu, in fatto di fertilità l’Italia è al 140° posto su 143 nazioni.

Le classifiche mondiali dimostrano che non c’è correlazione fra la ricchezza di uno Stato e la sua fertilità. Anzi, nelle prime posizioni ci sono le nazioni più povere al mondo: oltre al Niger, Somalia, Ciad, Mali, Angola, Congo, Burundi, Gambia e Nigeria. In pratica, mezza Africa, un dato che, da solo, basta a spiegare perché la pressione migratoria sull’Europa, negli anni a venire è destinata ad aumentare anziché a diminuire. Senza adeguati programmi di sviluppo in loco – è evidente – nel Sud del mondo non ci sarà mai cibo abbastanza per sfamare tutte quelle bocche, tantomeno ci saranno opportunità e posti di lavoro quando quei neonati saranno diventati grandi.

Ed è ora che la comunità internazionale inizi a pensare qualche soluzione, prima che sia troppo tardi, anziché voltarsi dall’altra parte, giocare allo scaricabile in materia di accoglienza e fingere di non sapere. In fondo, il paradosso demografico del Terzo Millennio è tutto qui: dove non ci sono prospettive si fanno figli a getto continuo (e le ragioni sono millanta), dove si vive meglio l’orologio biologico è stato fermato.

Come se ne esce? Intervenendo venerdì agli Stati Generali della natalità promossi a Roma dal Forum delle associazioni familiari, Papa Francesco si è appellato ai valori cristiani, come il ruolo gli impone: «Dov’è il tesoro della nostra società? Nei figli o nelle finanze? Che cosa ci attrae? La famiglia o il fatturato?», si è chiesto il Papa mettendo in concorrenza la disponibilità a procreare e la carriera, l’attenzione alla vita e il desiderio di… bella vita. Non solo: dopo aver denunciato l’«inverno demografico freddo e buio», il Pontefice ha fotografato con precisione i contorni del fenomeno: «Da anni

l’Italia ha il numero più basso di nascite in Europa, in quello che sta diventando il Vecchio Continente non più per la sua storia, ma per la sua età avanzata. “In questo nostro Paese – ha esemplificato Francesco – è come se ogni anno scomparisse una città di oltre 200 mila abitanti”. Da qui la pressante richiesta di profonde riforme sociali e “l’apprezzamento per la decisione del Governo di trasformare in legge l’assegno unico e universale per ogni figlio che nasce”. E il Presidente del Consiglio ha confermato che “da luglio la misura entrerà in vigore per i lavoratori autonomi e i disoccupati che oggi non hanno accesso agli assegni familiari; e nel 2022 la estenderemo a tutti gli altri lavoratori, che nell’immediato vedranno aumentare gli assegni già esistenti”. Il segnale va nella direzione giusta, ma resta solo un segnale – appunto – e non basterà per invertire una tendenza che rischia di diventare irreversibile. Come ha ammesso lo stesso Draghi, per tornare a credere nella vita servono un salto culturale, un cambio di paradigma, “nuove politiche a sostegno della natalità e della maternità, maggiori certezze per i giovani, un più moderno sistema di welfare e più servizi per l’infanzia”. Soprattutto, serve che tutti i potenziali genitori tornino ad avere fiducia nel futuro. Ed è evidentemente questa la sfida più dura, fra paura della pandemia, difficoltà economiche, minacce terroristiche, guerre sulla porta di casa e stili di vita più improntati all’egoismo che alla generosità.

Fare figli non è un obbligo, sia chiaro. E sulla bilancia pesa anche il dato delle tante persone che vorrebbero averne, ma soffrono perché non possono realizzare il loro progetto per ragioni biologiche o di altra natura. Al netto di queste difficoltà, però, è chiaro che le sorti del Paese (e dell’umanità tutta) passano da qui. E quanto sia importante la volontà dei governi in questo campo lo ha ben spiegato Federico Fubini sul Corriere della sera: «Durante il dopoguerra siamo passati da oltre un milione ad appena 400 mila nascite all’anno, mentre la Francia ne ha regolarmente mantenute fra 700 e 800 mila, pur attraversando la quarta e la quinta Repubblica, crisi, recessioni e tempeste varie. Ma è proprio qui che si vedono i segni di una classe dirigente, se c’è. Perché quando c’è capisce una dinamica e la governa, non la lascia a se stessa. Le élite francesi hanno dato una direzione alla demografia del loro Paese, sapendo che è l’infrastruttura di base di una comunità». E così «hanno curato la spina dorsale della nazione». Al contrario, secondo Fubini, «le élite italiane, ammesso che fossero tali, non hanno dedicato alla materia un solo pensiero. Il risultato è che dopo la Seconda guerra mondiale gli italiani erano 3 milioni più dei francesi e ora sono 8 di meno». Riuscirà SuperMario Draghi a invertire il trend e a compiere anche questo nuovo miracolo italiano? Al netto della laicità dello Stato, e degli altri mille impegni che si è caricato sulle spalle, un’intercessione papale potrebbe rivelarsi davvero molto preziosa…

MARCO BENCIVENGA

Direttore “La Provincia di Cremona”

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