Dicevano i vecchi democristiani alla vigilia di ogni tornata elettorale: “Allegri, vinciano la pandemia, rinserriamo le fila, amiamoci e odiamoci, ma poi andiamo a votare e facciamo votare lo scudo crociato, unica garanzia contro il comunismo”. E adesso che i democristiani non ci sono più, che cosa ci tocca stare a sentire? Più o meno le stesse cose: cambiano i referenti, resta immutato il palco dal quale gli avventori di turno lanciano i loro proclami. Se tutto va bene, una tornata elettorale piuttosto importante andrà in scena tra settembre e ottobre. Nell’attesa girano tanti nomi, circolano assai poche idee, emergono contrasti e dualismi. Ma, come si dice, va bene così. Pandemia permettendo, ne sapremo di più quando al popolo sovrano residente nelle città e nei paesi interessati sarà chiesto di votare. Allora capiremo gli umori e, forse, anche dove andremo a finire. Infatti, subito dopo o appena più in là, dovremo assistere al carosello che porterà alla elezione del Presidente della Repubblica e poi alle elezioni politiche generali. Basta e avanza per dire che saranno tempi duri e problematici. (L. C.)
Cercasi sindaco disperatamente…
A Milano il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, ha già fatto sapere che – al netto della volontà popolare – a fine mandato non si ricandiderà. E «no, grazie» ha risposto in settimana anche l’ex sindaco Gabriele Albertini, al quale il centrodestra aveva chiesto di sfidare l’attuale primo cittadino Giuseppe Sala alle Comunali del prossimo autunno. Due indisponibilità così fragorose non possono passare inosservate nella regione che rappresenta la locomotiva economica (e non solo) dell’intero Paese. Ma non va meglio a Roma, dove a fronte di due discusse autocandidature (la sindaca uscente Virginia Raggi e l’ex ministro Carlo Calenda) a pochi mesi dalle elezioni il principale partito del centrosinistra non ha ancora indicato un nome e il candidato più gradito al centrodestra, il super esperto di emergenze Guido Bertolaso, ha respinto con decisione ogni avances: «Si cerchino qualcun altro…», ha mandato a dire senza troppi giri di parole.
A poco meno di cinque mesi dalle Amministrative che si svolgeranno in oltre mille Comuni italiani (la data certa ancora non c’è, causa pandemia, ma il Governo ha aperto una finestra «nel periodo compreso fra il 15 settembre e il 15 ottobre») una domanda sorge spontanea: perché è così difficile trovare aspiranti sindaci, se non addirittura aspiranti governatori? Al di là delle questioni politiche (nessun partito vince da solo e le coalizioni fanno sempre più fatica a individuare una candidatura condivisa) la risposta non è poi così misteriosa: fra i tanti possibili incarichi pubblici, il mestiere di sindaco è ormai diventato il meno allettante in assoluto.
Perché è quello che richiede il massimo impegno e il massimo livello di responsabilità e offre in cambio il minore «ritorno» economico. Tutto il contrario rispetto a un seggio in Parlamento (dove pochissimi decidono per tutti e la stragrande maggioranza dei peones ha più privilegi che incombenze) e, ancor più, nel confronto con i consiglieri regionali (oggi la carica elettiva meglio retribuita in proporzione alla fatica profusa e all’utilità specifica).
È l’effetto perverso di quella lotta alla «casta» che, pur condivisibile sulla carta, nella realtà ha finito per penalizzare gli unici politici che lavorano davvero per il bene della comunità che rappresentano, quelli che ogni giorno operano sul campo, ci mettono la faccia, risolvono problemi, ne rispondono direttamente agli elettori, anziché trascorrere le giornate fra stucchi e velluti di Camera e Senato o viaggiare su quelle auto blu che, magari, avevano promesso di abolire, se eletti.
Il ruolo di sindaco è oggi il più ingrato e peggio retribuito di tutti: a parità di impegno e di responsabilità, un manager del settore privato può guadagnare anche dieci volte tanto. Per questo un professionista di alto livello – che potrebbe rivelarsi un ottimo gestore della cosa pubblica – ben si guarda dal diventare primo cittadino del Comune in cui vive o lavora. Il che rappresenta un bel problema per tante amministrazioni pubbliche, si tratti di governare grandi metropoli (fra i Comuni italiani chiamati al voto in autunno ci sono i quattro più popolosi del Paese: Roma, Milano, Napoli e Torino, per un totale di oltre otto milioni di residenti) o – ancor più – di amministrare i piccoli centri di provincia.
È un problema di democrazia e di rappresentanza, per non tornare ai tempi in cui solo i nobili e l’alta borghesia potevano «permettersi» di fare politica e per non dover neppure inseguire la moderna ipocrisia dell’«uno vale uno», teoria che ha dimostrato tutti i suoi limiti proiettando in ruoli di rilievo cittadini di buona volontà, certo, ma senza alcuna preparazione né competenza.
Ancor meno praticabile si è dimostrata l’utopia della «democrazia diretta», come ben rappresenta la parabola di Rosseau, la piattaforma telematica che per qualche tempo ha illuso i suoi iscritti di poter davvero determinare le scelte e i programmi del Movimento 5 Stelle, se non addirittura dei Governi di cui ha fatto (e fa) parte, salvo diventare oggetto di una causa legale fra gli eredi del creatore e la forza politica che l’aveva eletta ad assemblea permanente (e senza appello). La sfida, come sempre, è trovare la giusta misura: da un lato eliminare privilegi, vitalizi e benefit assurdi oggi riconosciuti a chi svolge un compito oggettivamente sovrastimato, dall’altro riconoscere il giusto compenso a chi si dedica a tempo pieno alla propria comunità. Magari con l’aggiunta di un premio per chi raggiunge determinati traguardi in termini di efficienza, gestione virtuosa delle risorse disponibili, qualità e quantità dei servizi garantiti ai cittadini.
Fra i tanti problemi e le tante urgenze di cui deve occuparsi, chissà se SuperMario Draghi riuscirà a compiere un miracolo anche in questa direzione. Sarebbe un piccolo passo avanti per la pubblica amministrazione e un grande passo avanti per la collettività. Poi, magari, l’esperimento si potrebbe estendere a tante altre categorie: volendo, a pensarci ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta.
MARCO BENCIVENGA
Direttore “La Provincia di Cremona”