Montagne di macerie fumanti, carcasse di auto distrutte dal fuoco, palazzi sventrati dalle bombe, ponti crollati, vetrine infrante, scaffali vuoti. Devastazione ovunque. Soprattutto, cadaveri straziati, avvolti in coperte che grondano sangue o chiusi nei sacchi neri dell’immondizia, e portati via, chissà dove. In tv, sui giornali o sul display del telefonino da giorni vediamo scene apocalittiche e viene naturale chiedersi chi e perché possa volere una simile infamia. Che senso abbia. Che soddisfazione provi un conquistatore a far sua una città distrutta. Quale interesse superiore possa valere un simile prezzo.
L’orrore della guerra è vecchio come il mondo. Non erano meno feroci i barbari, gli unni, i romani, i vichinghi, in tempi più vicini i nazisti e i terroristi islamici, da Al Qaida a Boko Haram. In fondo, non dovremmo neppure stupirci, visto che discendiamo tutti da Caino e Abele, il primo omicida e la prima vittima innocente. Ed erano fratelli! Quasi come russi e ucraini… Kharkiv e Irpin’ – le prime città bombardate da Vladimir Putin – non sono diverse da Beirut, Sarajevo, Aleppo, Raqqa, Tebe, Troia… La storia è piena di città rase al suolo da un nemico senza scrupoli. Per non parlare di Hiroshima e Nagasaki, le due comunità che nel 1945 furono spazzate dall’atomica.
Ora rischia Kiev, capitale di una Repubblica indipendente nata nel 1991 dalla dissoluzione dell’ex Unione Sovietica. Una città europea grande come Roma (con quasi tre milioni di abitanti) e due volte Milano. Può una simile città essere occupata e distrutta? Sì, purtroppo la risposta è sì. E la cosa peggiore è che possiamo far poco per impedirlo: Vladimir IV, il nuovo zar della Russia, lo sa benissimo, e con grande cinismo sta portando avanti il suo piano, sicuro del fatto che la comunità internazionale non possa intervenire militarmente, pena lo scoppio della terza guerra mondiale, distruttiva per l’intero pianeta. Non a caso, evocando lo spettro nucleare, Putin ha ammesso – e allo stesso tempo ammonito – che se la Nato o l’Occidente cercheranno di ostacolarlo «alla fine non ci saranno vincitori». Sottinteso: moriremo tutti.
Che fare, dunque? Due piccole speranze si affacciano fra le rovine di questi tragici giorni: una la offre la tecnologia, l’altra l’economia.
La prima è strettamente legata alla comunicazione, la più potente arma di mobilitazione (o distrazione) di massa. Non a caso Putin in patria da sempre censura i pochi media liberi e uno dei primi obiettivi che ha voluto colpire in Ucraina è stata la maxi antenna delle tv: il signore della guerra non può permettersi che il suo popolo si renda conto di cosa stia effettivamente provocando. E si ribelli. Pare che perfino fra i 200 mila soldati russi schierati da settimane ai confini con l’Ucraina non tutti avessero ben chiaro che l’obiettivo fosse invadere un Paese straniero e sparare sui civili, tanto che – ora – il rischio di diserzioni sarebbe altissimo. Il fattore forse sottovalutato da Putin è che non è più il tempo della Pravda: la Rete ha una capacità di penetrazione infinita. Capillare. Quasi illimitata. Là dove non arrivano censura e propaganda possono arrivare immagini e notizie diffuse dal web, dai social, perfino dagli hacker. È il possibile innesco per una rivolta dal basso capace di destituire il presidente democraticamente eletto e poco democraticamente diventato despota e guerrafondaio.
La seconda speranza è affidata all’economia: vero che Putin si è preparato per tempo alle conseguenze delle prevedibili sanzioni internazionali, mettendo da parte un tesoretto da oltre 600 miliardi di dollari e che può contare su entrate da quasi un miliardo di dollari al giorno, pari alla bolletta quotidianamente pagata dall’Europa per le sue forniture di gas e di petrolio, ma la stretta finanziaria dei mercati internazionali si sta già facendo sentire: dall’inizio della guerra il rublo ha perso un terzo del suo valore, ancor più gli investimenti stranieri a Mosca, e neppure l’alleanza con la Cina potrebbe bastare per compensare le gravi perdite subìte, tanto che secondo molti analisti la sesta potenza economica del mondo potrebbe fallire entro un anno. Il problema è che dal punto di vista bellico un anno è un tempo troppo lungo.
Se per un verso il tempo è il più grande alleato di Putin, perché può fiaccare l’orgogliosa resistenza dell’Ucraina; dall’altro verso gli effetti immediati delle sanzioni potrebbero portare in breve all’isolamento politico del leader fuori controllo.
Gli oligarchi russi abituati a spendere e spandere in giro per il mondo si sono già visti sequestrare conti miliardari e confiscare super yacht e ville di lusso. Se il popolo non ne ha la forza, potrebbero diventare i super ricchi il grimaldello per scardinare il bunker del Cremlino e deporre il nuovo Zar. Un segnale incoraggiante, in questa direzione, arriva dal gigante petrolifero Lukoil, che in settimana ha visto il suo valore di Borsa a Londra sprofondare del 93,23%, fin quasi ad azzerarsi, tanto che una nota ufficiale dei vertici del gruppo ha ufficializzato la richiesta di «porre fine più rapidamente possibile» alla guerra in Ucraina, invocando «la sua risoluzione attraverso un processo di negoziazione e mezzi diplomatici».
In parole povere: «Fermati Putin, perché la logica del massacro non conviene a nessuno». E neppure conquistare una città rasa al suolo o un Paese distrutto dai carri armati e dalle bombe. Per ora non si può parlare di fuoco amico. Ma se l’incontrastata leadership del nuovo Zar iniziasse a mostrare le prime crepe, potrebbe essere l’inizio della sua fine. E il passo avanti sarebbe immenso.
MARCO BENCIVENGA
Direttore “La Provincia di Cremona”